"io sono qui per continuare ad imparare"

Una frase, un ringraziamento, un pensiero, una poesia, una nota citazione, una preghiera, una testimonianza che trattano i temi fondamentali della vita (che chiamerò "riflessioni") possono, qualche volta, tracciare un solco positivo nel cuore e in alcuni casi diventare motivo di stimolo, speranza, conforto, sostegno. Se alle mie "riflessioni" aggiungerete le vostre, condivideremo anche con altri qualche prezioso suggerimento, come meditazione sulla realtà del vivere quotidiano.


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sabato 31 agosto 2019

Un lenzuolo prezioso


Ho ricevuto in regalo questo libro nel 1995. Stampato nel 91 e fuori commercio. Un dono molto caro ed emozionante che contiene una grande cultura ma soprattutto un grande grande amore

Clelia, la contadina che ricamava parole

A Pieve Santo Stefano, al confine tra Toscana, Umbria e Romagna, c’è un archivio pubblico in cui sono conservati più di 8 mila diari, quaderni di memorie e lettere. Sono scritti popolari, di gente comune e attraverso quelle vite e quelle storie anche la Storia. Pieve Santo Stefano venne completamente distrutta durante la ritirata dei tedeschi, nel ’44, e fu ricostruita grazie al piano di edilizia popolare voluto da Amintore Fanfani, che era nato lì. Il suo busto sta nella piazza che si attraversa prima di arrivare al museo che contiene le installazioni con alcuni dei diari conservati fisicamente nell’archivio.

Stare in quel museo (che è famoso ed è frequentato da molti registi e artisti) non è per niente facile. Si ha la sensazione di entrare senza permesso in casa d’altri, di aprire i cassetti dei comodini nelle loro camere da letto, di ficcare il naso tra le cose scritte in solitudine, solo per sé. Lo so, non sembra una cosa bella, ma da quando l’archivio è stato fondato, nel 1984, quelle pagine sono state donate dalle persone vicine a chi le ha scritte e che le hanno conservati o ritrovate tra la polvere di una soffitta, o dagli autori e dalle autrici stesse. Questo solleva un po’, e il museo è stato pensato e realizzato con molta delicatezza. Mentre ci si muove lì dentro, in punta di piedi, il cuore continua comunque a stringersi.
Nell’ultima stanza del museo c’è un grande lenzuolo matrimoniale, appeso dentro una teca. Una specie di sindone scritta fitta fitta di nero, con le righe numerate. In alto al centro c’è un’immagine sacra, ai lati due fotografie, e un titolo: “Gnanca na busia” (“Nemmeno una bugia”). Quel lenzuolo contiene una vita intera, quella di Clelia.

Clelia Marchi aveva 74 anni quando arrivò a Pieve Santo Stefano da un paesino in provincia di Mantova, Poggio Rusco. Era il 1986, aveva preso il treno per Arezzo, poi la corriera, aveva le trecce attorcigliate ed era vestita a festa. E il suo lenzuolo ce l’aveva sottobraccio, impacchettato. Era nata nel ’12 ed è morta nel 2006, dopo aver perso quattro figli su otto, dopo aver vissuto due guerre mondiali e la miseria. Nel 1972, il marito Anteo, conosciuto a quattordici anni e amato a sedici, morì in un incidente stradale.

Nelle sue notti di dolore, Clelia cominciò a fare una cosa che aveva fatto da sempre, cucire, e un’altra che non aveva fatto mai, scrivere. Rammendò in quel lavoro quotidiano la sua vita di prima e quella nuova, segnata dall’assenza dell’amore. Cominciò così a raccogliere fogli, foglietti e cartoncini, a cucirli per farne dei quaderni e a ricamarli. E scriveva, scriveva e scriveva, di sé, del paese, incollava fotografie e ritagli di giornale. Scriveva nello stesso modo in cui si piange, di continuo, senza freno: «A peso: chili e chili di quaderni» decorati e rilegati all’uncinetto con lane colorate.

Una notte, rimase senza carta. Aprì l’armadio, prese un lenzuolo del corredo, si posò un cuscino sulle gambe, ci stese sopra il lenzuolo e ricominciò a comporre sulla tela, un po’ in prosa, un po’ in poesia, un po’ in dialetto e in un italiano che si scrive così come le parole si dicono (aveva frequentato le elementari solo fino alla seconda, e solo d’inverno). Ci mise due anni, a finirlo.

«Care persone Fatene Tesoro Di Questo Lenzuolo Che C’è Un Po’ della Vita Mia». Così, inizia il lenzuolo. Clelia raccontò dei suoi tanti fratelli, della mamma che andava a lavorare per mandarli a scuola, di lei che badava ai più piccoli e che metteva insieme pezzi di vestiti con la canapa e che fino a tarda ora, fin da piccola, stava alzata per filare le lenzuola. Scrisse del lavoro nei campi, quando si pestavano gli escrementi caldi delle vacche, durante l’inverno, per scaldarsi i piedi, dei pranzi a base di mezze fette di polenta e di mezzi fichi. E poi, di Anteo, che incontrò mentre legava la paglia da quel padrone dove il padre era contabile:

«(…) una volta che ci sono andata a legare la paglia: non avevo visto chi c’era da l’altra parte della macchina: o chi mi all’ungava il filo di ferro; ò guardato, era un uomo bello, biondo, con gli occhi azzurri (…) dopo .6. mesi è venuto ad abitare proprio dove abitavo io; veniva a lavorare dal mio papà che era gastaldo del padrone: io le davo del voi perchè perchè io ero una bambina di fronte a lui; io avevo (14) anni e lui (25) ma io non avevo mai pensato; che quel bel ragazzo che avevo visto per la prima volta alla macchina; mi domandasse di fare la more; le ò detto se lo sa la mia famiglia; che voi siete vecchio: mi disse ma se ti piacio, parleremo di nascosto e quando avrai compiuto .16. ani si sposeremo»

Passarono due anni, erano arrivati i sedici: «Io stavo diventando mamma; tutti l’anno saputo, poco dopo siamo scappati». Andarono a casa dei parenti di lui, che erano ancora più poveri. Clelia partorì, rimase incinta di nuovo, lei e Anteo si sposarono, il secondo figlio morì di convulsioni, andarono a vivere da soli («avevamo solo: 25. lire e 25. chili di farina, 3 tovalie vecchie e un po’ di piatti vecchi anche l’oro»). E poi altri figli, l’ultima guerra, gli aereoplani che mitragliavano, le fughe nei fossi, la casa «con tanti buchi nel muro». E Anteo:

«(…) ne ò passato di tutti i colori, di ogni erbe un fascino: essere felici non è facile, mi sento molto vecchia, ò vissuto sempre in campagna, là mia vita è stata tanto faticosa; e dura; con mio marito ci siamo tanto amati, sono rimasta vedova quasi all’improvviso, mi sento vuota, finita, inutile, passo le mie giornate a piangere, non l’avrei mai pensato, che dopo .50. anni di matrimonio separarci così; tutte le mie tristezze le scrivo di notte, che poco dormo».

Per contenere tutto, i sacrifici e la fatica e il dolore ci vorrebbe un lenzuolo», scriveva Clelia: «largo, lungo come il mare».

(Il lenzuolo di Clelia è stato pubblicato qualche anno fa, così come molti altri diari conservati nell’archivio, che se chiedete si può visitare: è poco lontano dal museo e le persone che se ne occupano hanno la gentilezza e la cura di chi tiene tra le mani, come un dono, tutti i giorni la vita degli altri).

Cuore spezzato


Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi.
(William Shakespeare)

sabato 24 agosto 2019

Se vuoi puoi

Se vuoi puoi...
“C’è una forza motrice più forte del vapore, dell’elettricità e dell’energia atomica: la volontà.”
Albert Einstein

Ogni uomo imprime il proprio valore su sé stesso… È la volontà che fa l’uomo grande o piccolo.
Friedrich Schiller

L'altalena della vita

Mi soffermo. Quanti alti? Quanti bassi?
Eppure eccomi ancora qui, come bambina, aspettando fiduciosa, ancora alla mia età, che un alito leggero continui a far dondolare l'altalena del mio essere...e con il cuore continuo e continuerò a cullare i miei sogni ...

Jean-Honoré Fragonard, L’altalena, c. 1766, Collezione Wallace, Londra
Questa opera può essere considerata una delle più emblematiche del gusto rococò. Protagonisti della scena sono tre persone: una donna che dondola sull’altalena, un uomo che la spinge, ed un secondo uomo che è posto semisdraiato a terra per poter sbirciare tra le gonne della donna. In realtà il committente del quadro aveva chiesto esplicitamente che fosse rappresentato questo momento voyeuristico. Anche questo è un segno dei tempi dei quali la pittura rococò si fece interprete.
Tuttavia, al di là del soggetto dell’opera, il quadro ha un fascino molto evidente. L’immagine ha un aspetto sfavillante, dove i colori creano una trama cromatica di grande sensualità. Il tutto vuole essere una festa per gli occhi, senza alcuna preoccupazione per significati ideologici. È un quadro, in sostanza, che parla agli occhi e al cuore, non certo alla mente degli spettatori.
Da un punto di vista stilistico il quadro ha una ricchezza di toni assolutamente straordinaria. La luce sembra far vibrare ogni foglia che tocca. Se ciò avviene è soprattutto perché Fragonard adotta una tecnica basata solo sul contrasto tonale. In pratica vi è un’alternarsi continua e fitta di piccoli tocchi di colori, alcuni molto saturi altri molto chiari, creando così questa sensazione di riflessi e rifrazioni che danno vitalità all’immagine.
Il motivo fondamentale del quadro è dato dall’incrocio delle due diagonali. Una è il fascio di luce, che penetra nella fitta vegetazione, l’altra è quella creata dal movimento dell’altalena che si prolunga in basso nella figura dell’uomo semidisteso. Il quadro ha quindi una composizione decisamente dinamica, in quanto le due diagonali sono molto immateriali, quali la luce e il movimento. Non solo, diagonale dell’altalena ha un deciso scarto in avanti verso lo spettatore, così che l’altra diagonale sembra crearle uno spazio vuoto posteriore. Ciò arricchisce l’immagine di una spazialità che a prima vista non appare in maniera immeditata, in quanto lo spazio sembra quasi annullarsi nell’ombra creata dalla fitta vegetazione. Il quadro è decisamente un attimo fuggente. Esso non racconta una storia, ma vuole solo rappresentare una sensazione. Il gusto pittoresco è molto evidente: la natura è sicuramente irregolare e spontanea, e non mancano neppure le rovine classiche. In sostanza, con questo quadro il gusto rococò conosce una delle sue punte più alte, nonché il suo canto del cigno.
- Francesco Morante -

giovedì 22 agosto 2019

Santa Rosa da Lima

23 agosto Santa Rosa da Lima patrona dell'America Latina e delle Filippine.

"Nessuno si lamenterebbe della croce e dei dolori, che gli toccano in sorte, se conoscesse con quali bilance vengono pesati nella distribuzione fra gli uomini."
il Papa Clemente X la canonizzò il 12 aprile 1671 dopo aver assistito ad una miracolosa pioggia di petali di rosa che cadde su di lui, e che tutti attribuirono all'azione della Beata Rosa di Santa Maria. 
Ricostruzione facciale di santa Rosa da Lima eseguita dal designer Cícero Moraes a partire dallo studio del suo cranio.

23 agosto: santa del giorno è Rosa da Lima, religiosa del Terz’Ordine Domenicano, patrona dei giardinieri e dei fioristi, perché viveva in una cella posta in giardino. Viene invocata in caso di ferite, contro le eruzioni vulcaniche e pure in caso di litigi familiari.
Santa Rosa da Lima (al secolo Isabel Flores de Oliva e in religiose Rosa di Santa Maria) nacque a Lima, in Perù, il 20 aprile 1586 e morì nella stessa città il 24 agosto 1617.
Chiamata Rosa per la bellezza del volto, è la prima santa del continente americano. Fu modello di vita penitente e di preghiera continua nella semplicità della vita laicale. Iscritta al Terz’Ordine domenicano, mantenne sempre una straordinaria serenità in mezzo alle prove dolorose che accompagnarono la sua vita, imitando Cristo povero e crocifisso. Particolarmente devota della Vergine, operò e pregò per la dilatazione della Chiesa specie fra gli Indios d’America. A lei è attribuita questa frase: «Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo».
Così la ricorda il Martirologio Romano: «Santa Rosa, vergine, che, insigne fin da fanciulla per la sua austera sobrietà di vita, vestì a Lima in Perù l’abito delle Suore del Terz’Ordine regolare dei Predicatori. Dedita alla penitenza e alla preghiera e ardente di zelo per la salvezza dei peccatori e delle popolazioni indigene, aspirava a donare la vita per loro, giungendo a imporsi grandi sacrifici, pur di ottenere loro la salvezza della fede in Cristo».

giovedì 8 agosto 2019

Scalini di gentilezza

Una parola, un sorriso, una frase di incoraggiamento, una preghiera, una e-mail, una telefonata, un abbraccio, una gentilezza sono gli scalini che ti aiutano a raggiungere la vetta che sembra irraggiungibile...e molte volte questi “scalini” sono offerti da chi pensi non lo avrebbe mai fatto.

Illusione di umiltà

Dopo il post sotto trovo giusto condividere con voi una riflessione molto interessante di M. Oggioni: 
ILLUSIONI DI UMILTA'
Umiltà ad uncino. E' l'astuzia di rendersi spregevole per provocare lodi. «Sono una povera creatura, buona a nulla» Ho l'apparenza di non interessarmi della stima degli altri ma vi penso continuamente. Ho perso un'occasione buona per star zitto. La virtù è meno credibile quando l'uomo è conscio di possederla.

Gretta. E' la pusillanimità nello zelo; è il rifiuto della prestazione d'opera e delle responsabilità. Mi scuso in timidezza, che è poi falsa umiltà. Se giunge il successo, lo decanto come frutto della mia abilità, ma se viene il fallimento, l'ascrivo agli altri, commentando con sussiego: «l'avevo detto!».
Insolita. Compie gli atti da eco e da plauso. Non era di questo stampo il fariseo? Fugge gli atti comuni e banali, i servizi umili, gli antipatici e le persone emarginate. Il malato che si ostina a rifiutare cure e servizi, con il pretesto d'essere di peso, non appartiene a questa categoria?
Ombrosa. Come un salice piangente ci si sente incompresi e offesi in ogni parola che sfugge inavvertitamente al prossimo. Si temono trame ovunque e sempre; si mette il broncio ad un permesso negato. Non dover ammettere un errore compiuto.
Presuntuosa. Mi persuado che sulle mie spalle gravi una croce pesante che eroicamente porto. Mi ritengo a mani pulite e a cuore puro. E’ orgoglio la compiacenza a dipingersi a fosche tinte.
Ingegnosa. In caso di errore, l'io istintivamente cerca di scuse. E’ tattica dell'orgoglio non riconoscere i propri torti e attribuirli alle circostanze ed alle persone. «E’ perfezione somma accettare senza scusarsi qualsiasi correzione e rimprovero anche ingiusto. Del resto non sono mai incolpata senza ragione, essendo sempre piena di difetti » (T. d'Avila).
Complessata. La personalità è deformata dal complesso di superiorità: si passano periodi di vita in smania impaziente, in risentimento continuo. E' deformata anche da un complesso d'inferiorità: opprime l'ottica dei limiti e delle tare che chiude agli altri e rende introversi.

Umiltà


“Umiltà è la virtù che frena il desiderio innato dell'uomo di innalzarsi sopra il proprio merito".
-Tommaso d'Aquino-

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Quasimodo

- foto scattata dal balcone- Sesto S. Giovanni-