Ho ricevuto in regalo questo libro nel 1995. Stampato nel 91
e fuori commercio. Un dono molto caro ed emozionante che contiene una grande
cultura ma soprattutto un grande grande amore
Clelia, la
contadina che ricamava parole
A Pieve Santo Stefano, al confine tra Toscana, Umbria e
Romagna, c’è un archivio pubblico in cui sono conservati più di 8 mila diari,
quaderni di memorie e lettere. Sono scritti popolari, di gente comune e
attraverso quelle vite e quelle storie anche la Storia. Pieve Santo Stefano
venne completamente distrutta durante la ritirata dei tedeschi, nel ’44, e fu
ricostruita grazie al piano di edilizia popolare voluto da Amintore Fanfani,
che era nato lì. Il suo busto sta nella piazza che si attraversa prima di
arrivare al museo che contiene le installazioni con alcuni dei diari conservati
fisicamente nell’archivio.
Stare in quel museo (che è famoso ed è frequentato da molti
registi e artisti) non è per niente facile. Si ha la sensazione di entrare
senza permesso in casa d’altri, di aprire i cassetti dei comodini nelle loro
camere da letto, di ficcare il naso tra le cose scritte in solitudine, solo per
sé. Lo so, non sembra una cosa bella, ma da quando l’archivio è stato fondato,
nel 1984, quelle pagine sono state donate dalle persone vicine a chi le ha
scritte e che le hanno conservati o ritrovate tra la polvere di una soffitta, o
dagli autori e dalle autrici stesse. Questo solleva un po’, e il museo è stato
pensato e realizzato con molta delicatezza. Mentre ci si muove lì dentro, in
punta di piedi, il cuore continua comunque a stringersi.
Nell’ultima stanza del museo c’è un grande lenzuolo
matrimoniale, appeso dentro una teca. Una specie di sindone scritta fitta fitta
di nero, con le righe numerate. In alto al centro c’è un’immagine sacra, ai
lati due fotografie, e un titolo: “Gnanca na busia” (“Nemmeno una bugia”). Quel
lenzuolo contiene una vita intera, quella di Clelia.
Clelia Marchi aveva 74 anni quando arrivò a Pieve Santo
Stefano da un paesino in provincia di Mantova, Poggio Rusco. Era il 1986, aveva
preso il treno per Arezzo, poi la corriera, aveva le trecce attorcigliate ed
era vestita a festa. E il suo lenzuolo ce l’aveva sottobraccio, impacchettato.
Era nata nel ’12 ed è morta nel 2006, dopo aver perso quattro figli su otto,
dopo aver vissuto due guerre mondiali e la miseria. Nel 1972, il marito Anteo,
conosciuto a quattordici anni e amato a sedici, morì in un incidente stradale.
Nelle sue notti di dolore, Clelia cominciò a fare una cosa
che aveva fatto da sempre, cucire, e un’altra che non aveva fatto mai,
scrivere. Rammendò in quel lavoro quotidiano la sua vita di prima e quella
nuova, segnata dall’assenza dell’amore. Cominciò così a raccogliere fogli,
foglietti e cartoncini, a cucirli per farne dei quaderni e a ricamarli. E
scriveva, scriveva e scriveva, di sé, del paese, incollava fotografie e ritagli
di giornale. Scriveva nello stesso modo in cui si piange, di continuo, senza
freno: «A peso: chili e chili di quaderni» decorati e rilegati all’uncinetto
con lane colorate.
Una notte, rimase senza carta. Aprì l’armadio, prese un
lenzuolo del corredo, si posò un cuscino sulle gambe, ci stese sopra il
lenzuolo e ricominciò a comporre sulla tela, un po’ in prosa, un po’ in poesia,
un po’ in dialetto e in un italiano che si scrive così come le parole si dicono
(aveva frequentato le elementari solo fino alla seconda, e solo d’inverno). Ci
mise due anni, a finirlo.
«Care persone Fatene Tesoro Di Questo Lenzuolo Che C’è Un Po’
della Vita Mia». Così, inizia il lenzuolo. Clelia raccontò dei suoi tanti
fratelli, della mamma che andava a lavorare per mandarli a scuola, di lei che
badava ai più piccoli e che metteva insieme pezzi di vestiti con la canapa e
che fino a tarda ora, fin da piccola, stava alzata per filare le lenzuola.
Scrisse del lavoro nei campi, quando si pestavano gli escrementi caldi delle
vacche, durante l’inverno, per scaldarsi i piedi, dei pranzi a base di mezze
fette di polenta e di mezzi fichi. E poi, di Anteo, che incontrò mentre legava
la paglia da quel padrone dove il padre era contabile:
«(…) una volta che ci sono andata a legare la paglia: non
avevo visto chi c’era da l’altra parte della macchina: o chi mi all’ungava il
filo di ferro; ò guardato, era un uomo bello, biondo, con gli occhi azzurri (…)
dopo .6. mesi è venuto ad abitare proprio dove abitavo io; veniva a lavorare
dal mio papà che era gastaldo del padrone: io le davo del voi perchè perchè io
ero una bambina di fronte a lui; io avevo (14) anni e lui (25) ma io non avevo
mai pensato; che quel bel ragazzo che avevo visto per la prima volta alla
macchina; mi domandasse di fare la more; le ò detto se lo sa la mia famiglia;
che voi siete vecchio: mi disse ma se ti piacio, parleremo di nascosto e quando
avrai compiuto .16. ani si sposeremo»
Passarono due anni, erano arrivati i sedici: «Io stavo
diventando mamma; tutti l’anno saputo, poco dopo siamo scappati». Andarono a
casa dei parenti di lui, che erano ancora più poveri. Clelia partorì, rimase
incinta di nuovo, lei e Anteo si sposarono, il secondo figlio morì di
convulsioni, andarono a vivere da soli («avevamo solo: 25. lire e 25. chili di
farina, 3 tovalie vecchie e un po’ di piatti vecchi anche l’oro»). E poi altri
figli, l’ultima guerra, gli aereoplani che mitragliavano, le fughe nei fossi,
la casa «con tanti buchi nel muro». E Anteo:
«(…) ne ò passato di tutti i colori, di ogni erbe un fascino:
essere felici non è facile, mi sento molto vecchia, ò vissuto sempre in
campagna, là mia vita è stata tanto faticosa; e dura; con mio marito ci siamo
tanto amati, sono rimasta vedova quasi all’improvviso, mi sento vuota, finita,
inutile, passo le mie giornate a piangere, non l’avrei mai pensato, che dopo
.50. anni di matrimonio separarci così; tutte le mie tristezze le scrivo di
notte, che poco dormo».
Per contenere tutto, i sacrifici e la fatica e il dolore ci
vorrebbe un lenzuolo», scriveva Clelia: «largo, lungo come il mare».
(Il lenzuolo di Clelia è stato pubblicato qualche anno fa,
così come molti altri diari conservati nell’archivio, che se chiedete si può
visitare: è poco lontano dal museo e le persone che se ne occupano hanno la
gentilezza e la cura di chi tiene tra le mani, come un dono, tutti i giorni la
vita degli altri).