"io sono qui per continuare ad imparare"

Una frase, un ringraziamento, un pensiero, una poesia, una nota citazione, una preghiera, una testimonianza che trattano i temi fondamentali della vita (che chiamerò "riflessioni") possono, qualche volta, tracciare un solco positivo nel cuore e in alcuni casi diventare motivo di stimolo, speranza, conforto, sostegno. Se alle mie "riflessioni" aggiungerete le vostre, condivideremo anche con altri qualche prezioso suggerimento, come meditazione sulla realtà del vivere quotidiano.


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sabato 18 aprile 2020

Covid-19: Tra divulgazione e meditazione-

COVID-19: SI GIOCA!
TRA DIVULGAZIONE E MEDITAZIONE di don Gabriele Cislaghi, vicepreside dell’Issr di Milano
Quando anche il gioco (e le parole) aiutano a riflettere Qualche sera fa un amico, che è anche un bravo papà, mi ha raccontato come sta vivendo queste settimane così strane che ci sono capitate
addosso. Ci siamo confrontati sui pensieri, sulle emozioni, sulle faccende. La differenza più evidente è stato il tema della famiglia e in particolare dei figli, nella fattispecie bambini e ragazzini.
Più o meno le sue parole: “tu non sai che gioia avere con me e in salute le mie creature, ma non puoi immaginare, non puoi capire che fatica ogni giorno tenerli buoni, farli studiare e soprattutto trovare giochi sempre nuovi con cui divertirli e divertirmi…” e via di questo passo.
Ha ragione. E mi è venuta un po’ di nostalgia: non tanto dei figli che non ho (questa sarebbe un’altra questione non da poco), ma della mia fanciullezza e dei miei giochi in casa.
Un gioco che amavo molto e che facevamo spessissimo, con mia sorella (mia grande alleata ieri come oggi!) ma anche con i miei fratelli, era il famoso “Nomi, cose, città, animali” … Ci piaceva anche perché potevamo permettercelo nella sua totale economicità: bastava qualche foglietto, tre o quattro matite o penne, più le lancette dell’orologio della cucina o della cameretta per segnare il tempo.
Ecco così sorgere in me la voglia di giocare, di trasformare la nostalgia e lo stimolo ludico in qualcosa di concreto da fare. Ne è nata un’occasione ulteriore per continuare, in modo nuovo, un po’
diverso, quello che sto elaborando in questi giorni con l’esercizio della scrittura: mettere ordine, capire, immaginare. Le regole del gioco che mi sono dato sono state quelle classiche. Scegliere di volta in volta una lettera dell’alfabeto e poi trovare le parole adeguate, anche se per una categoria inedita rispetto agli indimenticabili “nomi, cose, città, animali…”: la nuova colonna da riempire è stata “Covid-19”.
Devo ammettere che la cosa mi ha stuzzicato parecchio perché, tra i diversi libri che ho sulla scrivania in queste ore, c’è un volume che sto apprezzando moltissimo e che consiglio a tutti. Si tratta del “Dizionario inesistente” di Stefano Massini, scrittore oramai noto anche al pubblico televisivo. Un libro intelligente, una raccolta di parole “inesistenti” ma che aiutano a interpretare il nostro tempo. Questo libro ha appunto la forma letteraria di un dizionario alfabetico. Ecco la voglia
di imitarne il modello. Mi sono messo a giocare da solo … tra un solitario di carte e l’altro al
pc (confesso anche questa mia debolezza) …Ho eseguito – appunto per conto mio – una serie di manches, che mi hanno portato a trovare più parole per ogni lettera dell’alfabeto: in qualche caso con facilità e quindi con abbondanza di lemmi, altre volte con meno successo.
Mi è venuto in mente anche quel gioco giornalistico in cui ci imbattiamo immancabilmente nell’ultima settimana di ogni dicembre, quando negli articoli dei quotidiani o dei rotocalchi leggiamo le statistiche e le classifiche sulle parole che hanno caratterizzato l’anno che si sta chiudendo. Sono pronto subitissimo a scommettere con chiunque che a dicembre 2020 ci saranno almeno alcune di queste stesse parole.  Dopo le mie manches in solitaria, ho voluto cercare dei compagni di gioco.
Giocare almeno in due o tre è sempre più bello!!! Ne ho trovati due, di profilo più che degno. Certo, nel rispetto del sacrosanto diktat “restiamo a casa”, li ho incontrati sul web. Due donne, al solito sempre più disponibili al gioco, come lo era stata e lo è ancora la mia amata sorella.
La prima, una giornalista: Silvia Truzzi, che ha compilato una prima bozza – essenziale ma incompleta dal punto di vista delle lettere dell’alfabeto – il 14 marzo scorso su Il Fatto quotidiano e l’ha intitolata “Coronavirus, il dizionario della crisi”. La seconda, una project manager Museums & Archives: Claudia Fiasca, che si è cimentata il 19, il 20 e il 25 marzo sul sito della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, producendo un “Dizionario del Coronavirus” redatto con un sottotitolo molto accattivante: “Le parole scientifiche, civili ed emozionali divenute ormai
parte del nostro lessico familiare”. Più tempo e più spazio editoriale l’hanno onestamente avvantaggiata rispetto alla prima concorrente. Devo dire che non me la sono cavata male, anzi (e mi piace vincere al gioco, è naturale!). Senza nascondere che l’ovvia assenza di vincoli di
testata giornalistica o sitografica mi ha permesso di essere più prolifico. Comunque, paragonando i miei elenchi con i due “dizionari” succitati, ci siamo ritrovati su molte parole e su molti significati.
Ho deciso di redigere un diario della nostra partita. Terrò alla base i
miei risultati con le suggestioni che li hanno accompagnati. Ma insieme citerò a mo’ di integrazione riconoscente il contributo di Silvia col virgolettato (“…”) seguito da un asterisco (*) e il contributo di Claudia col virgolettato (“…”) seguito da due asterischi (**). Per alcune parole dedicherò – con un criterio di selezione assolutamente libero e personale – qualche riga in più, anche perché in tutto questo gioco non ho voluto trascurare un’altra risorsa, tenacemente collocata accanto a me: la Bibbia. Così preziosa in questi giorni non solo per me, e non tanto per giocare… ma per vivere e
sopravvivere (il mio lettore sa cosa intendo). A proposito di lettore, che sempre ringrazio: non ho pretese di insegnare nulla a nessuno; ho solo il piacere di condividere cosa penso e cosa porto dentro di me. Punto. Non creo e non cerco dibattito, per poi cercare di avere ragione. Offro in libertà spunti per la libertà di pensiero. Due piccole note di metodo: a) seguirò l’ordine delle 21 lettere convenzionali dell’alfabeto italiano. Farò seguire solo per un ultimo divertimento le cosiddette 5
“lettere straniere” (oramai integrate nei dizionari della nostra lingua, a comporre le 26 lettere di quello che viene chiamato “alfabeto latino”). b) Spesso e volentieri segnalerò rimandi da un lemma all’altro con l’espressione “vedi alla/e voce/i”. Pur non essendo questo un lavoro sistematico, ma un gioco, la logica del pensiero (cui non posso rinunciare) richiede di rispettare i nessi. Un consiglio semplice: queste pagine vanno lette proprio come sono composte: a piccoli bocconi, scegliendo liberamente la parola e il tema che più interessa o aggrada. Svelo l’arcano: queste pagine sono idealmente pensate come invito a meditare ogni giorno una pagina della Scrittura nel mentre
assistiamo alle dinamiche di questo tempo strano. Non ho mai dimenticato il suggerimento di un predicatore (che invece ho scordato) durante gli anni del mio seminario. Quando preghi, tieni
nella mano destra la Bibbia e nella mano sinistra un giornale, perché la tua preghiera sia incarnata e tu possa gustare la bellezza e la potenza dell’intercedere. Ecco: questo gioco che non è un gioco nasce anche dall’obbedienza a quella indicazione educativa. C’è amore per la Scrittura ed esortazione a leggere la Bibbia, sempre. Ci si può anche giocare, figuratevi! Ecco il diario di gioco.
A: Sarà perché è la prima lettera, ma qui viene facile trovare parole. Allarme e la sua deformazione Allarmismo. Forse siamo stati avvisati in ritardo del pericolo, ma certo poi c’è stata (in buona o cattiva fede) una rincorsa all’attenzione che ha generato molta confusione e che ha destabilizzato tante coscienze e tanti rapporti. Vale la pena ascoltare Gesù: “non allarmatevi; deve avvenire, ma non è ancora la fine” (Mc 13,7). Ansia e angoscia. Figlie dei suddetti Allarme e Allarmismo, sono
emozioni sorelle, una più epidermica e somatica, l’altra più viscerale e spirituale.
Ascoltiamo ancora Gesù: “non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc12, 29b-31). Apocalisse. Sempre evocata nei frangenti di catastrofi epocali, ma sempre come sinonimo di imminente fine del mondo e mai nel suo significato più proprio di rivelazione di qualcosa di più grande circa il senso della storia del mondo. Per chi crede e legge la Parola di Dio non può non prevalere la seconda accezione, e quindi la voglia e l’impegno di scoprire il senso, di dare un senso… un senso al quale non può essere estraneo il Signore Gesù, come insegna il libro dell’Apocalisse di san Giovanni che chiude il canone della Bibbia.
Attesa. Di buone notizie, di vere buone notizie; che tutto passi; che si possa riprendere in mano la vita; che Dio provveda. “Aspetto da te la salvezza, Signore” (Sal 119,166).
Autorità. Si è tornati a capire che senza qualcuno al comando una convivenza sociale non tiene, soprattutto in stato di pericolo comune (addirittura si discute se una dittatura sia migliore di una democrazia nel far fronte alla situazione). Paolo ce lo aveva insegnato senza giri di parole: “Ciascuno sia sottomesso all’autorità costituita […] I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell'autorità? Fa' il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene” (Rom 13, 1.3-4). Vedi anche alla voce Governo. 
Assistenza. Chi non la cerca quando sta male, e chi in coscienza non la presterebbe davanti al malessere di un essere vivente? Eppure la si butta spesso in politica, e piuttosto che rimboccarsi le maniche si litiga sulle forme di stato più o meno assistenziale, su quale siano le corrette declinazioni del Welfare, sulla contestuale condanna dell’assistenzialismo, ecc. Peccato che intanto chi ha bisogno, continua ad averlo. A scanso di equivoci, nel Nuovo Testamento quello di “assistere” è uno dei carismi ecclesiali dello Spirito Santo (cf 1 Cor 12,28).
Autocertificazione. “È il modulo, diffuso dal Ministero dell’Interno …da compilare e presentare alle forze dell’ordine, in cui si esplicita … il motivo per il quale si è lasciata la propria abitazione, nonostante i divieti previsti dal Governo e si dichiara di non essere sottoposti alla quarantena. L’uscita è consentiva solo per “comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, motivi di salute, o rientro presso il proprio domicilio/residenza.”” (**) Già materia di barzellette a motivo
delle sue innumerevoli e poco durature edizioni, è a suo modo uno strumento di libertà e di responsabilità civiche e democratiche. Si usava di per sé anche al tempo della Chiesa delle origini. Grazie a una autocertificazione Paolo ha potuto appellarsi all’imperatore e andare a Roma “Allora il comandante si recò da Paolo e gli domandò: «Dimmi, tu sei romano?». Rispose: «Sì». Replicò il comandante: «Io, questa cittadinanza l'ho acquistata a caro prezzo». Paolo disse: «Io, invece, lo
sono di nascita!». E subito si allontanarono da lui quelli che stavano per interrogarlo. Anche il comandante ebbe paura, rendendosi conto che era romano e che lui lo aveva messo in catene” (At 22, 27-29). Quando ci vuole ed è secondo la legge, occorre sempre dichiarare, senza paura, chi si è e quali sono i propri diritti.
Algoritmo. Per me rimane un mistero, non ho mai capito cosa sia e come funzioni… Comunque pare sia necessario – tra le altre cose – per studiare con rigore scientifico l’andamento della pandemia e
soprattutto per fare previsioni attendibili. Succede come da studenti: la matematica ti trasmette sicurezza quando ti riescono le operazioni e ti sembra infallibile, ma ti dà anche sui nervi quando non ti viene il risultato, e preferisci sperare nell’aiuto di Dio.
Anticorpi. Di solito diffido di tutto ciò che è anti. In particolare il corpo è una dimensione imprescindibile del nostro esistere. Penso anche all’espressione neotestamentaria “anticristo”, che non ha nulla a che vedere con cose esorcistiche, ma definisce chi non ha riconosciuto la “carne” del Figlio di Dio, e quindi è nemico del Vangelo e della Chiesa. Tuttavia in questo caso parliamo di un esercito di bene che combatte la guerra e la vince per noi. In termini tecnici si tratta di immunoglobuline prodotte dal nostro sistema linfocitico in risposta all’attacco di sostanze eterologhe come ad esempio un virus (coronato o meno). Anche qui ci sarebbe da chiedersi – non tanto dal punto di vista biologico, ma esistenziale – perché “l'uno verrà portato via e l'altro lasciato” (Lc 17,34), ovvero come mai non è dato a tutti i nostri corpi di produrre gli stessi anticorpi contro lo stesso corpo estraneo. Perché lui sì, e io no? Antichissimo dilemma attribuito a Sant’Agostino: 
Si isti et istae, cur non ego?
Amuchina. “La mamma diceva di usarla per disinfettare la frutta e la verdura, ma quasi mai le si dava retta. Improvvisamente è diventato il bene più ricercato, più prezioso. Sotto forma di gel, salviette, detersivi” (*). L’amuchina ha un odore inconfondibile. San Paolo (cf 2 Cor 2, 14-16) ci invitava a diffondere “il profumo di Cristo”, un “odore di vita per la vita” più forte dell’“odore della morte per la morte”. Ecco… l’amuchina non sa esattamente di Cristo, ma evoca un profumo
di vita la cui fragranza desideriamo tutti odorare. 
Assembramenti. Il radunarsi insieme, lo stare insieme per interagire. È di per sé la condizione prima della nostra identità di animali sociali. Eppure oggi ci è impedito dalla prudenza e dalla legge.
Da cristiani pensiamo subito al nostro essere Chiesa che etimologicamente significa essere convocazione, assemblea, anzitutto nell’ambito della vita liturgica (culmine e fonte di tutta la vita cristiana). Sospendere le assemblee liturgiche e le altre convocazioni pastorali è forse attentare alla vita della Chiesa? Il timore e la sofferenza sono palpabili in tutti i fedeli. Ci possa tuttavia confortare la testimonianza di san Paolo: scrivendo al discepolo e amico Timoteo, lo esorta: “cerca di venire presto da me”; perché nell’esperienza traumatica del tribunale e della prigionia si è sentito solo e abbandonato: “nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato”. Eppure la presenza del Signore e l’opera del Vangelo (=la Chiesa!) non sono stati interrotti: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l'annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero” (2 Tm 4, passim). Come cristiani abbiamo da tempo imparato che non è la sociologia a
determinare da sola la consistenza del mistero della Chiesa. Allora non ricadiamo nella mera sociologia nell’affermare che, se provvisoriamente (e non preferenzialmente) non è possibile fare assemblea, allora non c’è popolo di Dio e non c’è validità ecclesiale o addirittura ontologicosacramentale nella celebrazione eucaristica del solo ministro ordinato. La santa Messa è sempre, nell’azione di Cristo unico sacerdote e mediante l’azione dal sacerdozio ministeriale, azione della Chiesa per la Chiesa, popolo sacerdotale. 
Applauso: “è il gesto che unisce l’Italia per ringraziare medici, infermieri e operatori sanitari per la fatica e lo sforzo di questi giorni. Si applaude dalle finestre e dai balconi per infondere coraggio, come segno di vicinanza, per sfogo o per commozione. È, assieme al canto, l’espressione di una ritrovata forma di collettività” (**). Detesto gli applausi a comando negli show televisivi (la claque). Mi imbarazzano gli applausi in chiesa. Mi emozionano gli applausi sinceri davanti a qualsiasi esibizione artistica o performance culturale e professionale. Ritengo importante saper sempre manifestare la gratitudine e l’apprezzamento a chi lo merita. Tuttavia, l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme qualche giorno prima di essere, dalla stessa folla prima acclamante, condannato a
morte (cf Mt 21, 8-9 e 27, 20-23), ci mette in guardia sulla sincerità e durata degli applausi.
Arcobaleno: “da sempre simbolo di pace e uguaglianza di diritti, l’arcobaleno è l’immagine più rappresentata nei disegni realizzati dai bambini. #andràtuttobene è lo slogan che ne potenzia il messaggio di speranza e rinascita” (**). Vale la pena non dimenticare che nella Scrittura è il segno dell’alleanza di Dio con Noè e con l’umanità sopravvissuta a quel castigo del diluvio che lo stesso Dio promette di non ripetere più (cf Gen 9, 12-17). 
Abbraccio. Il posto d’onore desidero darlo alla seguente parola. “Dall’epoca dei “free hugs” (abbracci gratis), l’iniziativa sociale nata a Sydney nel 2004 per promuovere atti casuali di gentilezza
disinteressata, al divieto di abbracciarsi per evitare il contagio del Covid-19. L’atto considerato consolatorio, amichevole, affettuoso, fraterno, riconciliante, è vietato” (**). Questo divieto costa molto ed è davvero una ferita profonda. L’abbraccio può essere breve o prolungato, dovrebbe essere paritario perché fatto per esprimere reciprocità; ma è per lo più sbilanciato, vuoi per ragioni di disparità fisica (adulto con bambino; giovane con anziano; uomo con donna; sano con ammalato; sportivo con fragile), vuoi per asimmetria emotiva (passionale con timido, introverso con
estroverso, e così via), perché fatto anche per esprimere complementarietà. Comunque un gesto – o un insieme di gesti – che dice tante cose: eccomi, sono qui con te e per te, siamo insieme, siamo
legati, intrecciati; ti accolgo, ti tengo e ti sostengo, ti proteggo; ti voglio bene; ti amo. La Scrittura conosce gli abbracci, anche se li racconta con una certa parsimonia. La Scrittura conosce anche il dramma di non poterseli dare: “un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci”
(Qo 3,5). La Scrittura racconta diversi gradi di affettività abbracciata. E la Scrittura accompagna volentieri l’abbraccio con due ingredienti altrettanto importanti nella vita: il bacio e le lacrime.
Mi piace ricordare quello tra due coppie di fratelli. Esaù e Giacobbe: dopo essersi urtati fin dal grembo materno che avevano coabitato in un abbraccio costretto, finalmente si riconciliano quando “Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero” (Gen 33,4).
Giuseppe e Beniamino (poi allargato agli altri fratelli più grandi) durante la scena della fraternità riconciliata: “egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse” (Gen 45, 14-15). Bello anche quello del vecchio nonno Giacobbe che conosce per la prima volta i nipotini, Efraim e Manasse: “Gli occhi d'Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere. Giuseppe li avvicinò a lui, che li baciò e li abbracciò” (Gen 48,10). E poi sublime è quello intenso, articolato e ripetuto, tra lo sposo e la
sposa: “La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia” (Ct 2,6 e identico in 8,3).
Di Gesù basta ricordare l’abbraccio che Egli ha collocato al centro della sua parabola più bella “suo padre lo vie, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20; poi la tenerezza per i piccoli: “preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse…”; e la cautela nel ricevere da risorto abbracci adoranti dalle donne (come gli era già capitato prima, in casa di Simone il fariseo e a casa dei suoi cari amici a Betania): “esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono” (Mt 28,9); “non mi trattenere” (Gv 20,17). E infine anche l’apostolo, il celibe Paolo non può esimersi da ricevere l’affetto di una comunità cristiana, anche qui con lacrime e baci: “Tutti scoppiarono in pianto e, gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano” (At 20,37). Tutto questo ci manca… ne abbiamo bisogno, desiderio. Siano benedetti gli abbracci. Ma nel frattempo ci è stato raccomandato un altro abbraccio, questo non solo possibile ma necessario in queste settimane: “Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza”. Più a fondo: “Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà”. Sono le parole di papa Francesco nella bellissima omelia di venerdì 27 marzo sul sagrato, vuoto e bagnato di pioggia, della Basilica Vaticana di S. Pietro. Non ci manchino questa occasione e questo coraggio di abbraccio.
B: La prima parola non può che essere:
Bene. Quello convenzionalmente e correttamente considerato primario da tutti e per tutti: il bene della salute. Stare bene. Il benessere nel suo senso più completo e appagante, che sarà pure sempre un passo indietro rispetto alla felicità ma gli si approssima molto. Quello del già richiamato “andrà tutto bene”. Amo ripetere la forma paolina dello slogan: “tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (Rom 8,28). E dobbiamo sempre all’Apostolo il richiamo alle sfumature concrete del bene: “attaccatevi al bene; […] Non siate pigri nel fare il bene […] benedite e non maledite. […] Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. […] Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rom 12, passim).
Bollettino. “Ricorrono sempre più sovente terminologie militari: bollettino, trincea, coprifuoco. È il resoconto della giornata redatto dalla Protezione Civile e comunicato al Paese. Non solo numeri ma
anche appelli, moniti, richieste e ringraziamenti” (**). Non posso non menzionare che qui la terminologia è anche tipicamente ecclesiastica: i “bollettini” parrocchiali (con tutta la varia gamma dei loro sinonimi, formati, tempistiche di stampa e/o di invio). È sempre utile fare il punto e verificare la qualità del nostro dare notizie e avvisare: non solo “cosa?”, ma sempre chiedersi anche “come?”, “perché?” e a “chi?” mi sto rivolgendo. 
Balcone. È diventato forse la metratura/cubatura più ambita e qualificante le nostre abitazioni. Si colloca come a metà tra le mura domiciliari propriamente dette, dentro le quali dobbiamo “restare”, e le strade/piazze/parchi di quartiere dove vorremmo tanto, ma non possiamo, sostare per prendere aria, fare movimento e goderci la primavera. “Spazio che storicamente e politicamente ha delle connotazioni ben precise, il balcone è oggi - nei giorni di quarantena - l’incontro con gli altri. È l’affaccio quotidiano, riscoperto, sulla vita altrui. È il luogo per eccellenza dove si manifesta empatia e si dà voce agli stati d’animo. Dai balconi scendono bandiere, cartelli con messaggi di speranza che coesistono insieme ai gesti più ordinari: il bucato steso al sole, il tavolo dove pranzare, i vasi con le primule in fiore da innaffiare. Spazio di socialità è - adesso più che mai - il luogo da cui affacciarsi per sentirsi meno soli” (**). L’edilizia biblica più che balconi conosce le terrazze: luoghi di rifugio e
quindi salvezza (come per gli esploratori israeliti protetti dalla prostituta Raab: cf Gs 2); ma anche luoghi di accidia e di tentazione (come per il re Davide che concepisce lì il suo adulterio: cf 2 Sam 11); luoghi di trepidazione e di precarietà (come si intuisce nelle enigmatiche raccomandazioni di Gesù nei suoi discorsi escatologici: “In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle”: Lc 17,31); ma anche luoghi di preghiera (come per l’apostolo Pietro che proprio lì avrà la visione che deciderà per sempre il volto di una “Chiesa dalle genti”: cf At 10). Scegliamo quindi di abitare bene i nostri balconi e le nostre terrazze. Non cediamo alle tentazioni di peccato, ma osiamo visioni di evangelizzazione.
Bandiera. “È un oggetto composto da cinque elementi: un pennone, una fune, la galloccia, un drappo di stoffa e un puntale. Il tricolore è il simbolo dell’Italia e il suo sventolare sussurra o grida il sentimento del Paese. Che sia uno svolazzare lento e pacato, che sia appena sfiorata dal vento, o che sia immobile e distesa su un feretro, lasciata a mezz’asta, o agitata dall’allegria di una vittoria, innalzata da moti di orgoglio e sentimenti d’appartenenza nazionale: la bandiera è lo sfondo
cromatico e denso di significati in cui si riconoscono gli italiani. In questi giorni le bandiere colorano le facciate delle istituzioni italiane ed europee in segno di solidarietà e cordoglio per le vittime della pandemia. Il tricolore è segno di una comunità che si riconosce nel suo passato, nel suo difficile presente e che guarda fiduciosa al futuro, seguendo con lo sguardo il suo svolazzare” (**). Niente da aggiungere a questa ottima descrizione. Biblicamente la bandiera si chiama vessillo, e tale strumento
appartiene a una delle più importanti profezie messianiche, ovvero ci parla di Gesù, della salvezza, della Chiesa: “In quel giorno avverrà che la radice di Iesse sarà un vessillo per i popoli. Le nazioni la cercheranno con ansia. La sua dimora sarà gloriosa. In quel giorno avverrà che il Signore stenderà di nuovo la sua mano per riscattare il resto del suo popolo, superstite […] Egli alzerà un vessillo tra le nazioni e raccoglierà gli espulsi d'Israele; radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della
terra” (Is 11, 10-12). Non dimentichiamo che il dettaglio più diffuso nell’iconografia sacra
della risurrezione di Cristo è il vessillo della vittoria, costituito da una croce o da un’asta sormontata da una bandiera o banderuola, a sua volta in alcuni casi provvista di croce. Non dico che dovremmo mettere questo sui nostri balconi o fuori dalle nostre finestre… ma un segno cristiano in questi tempi così calamitosi ci sta. Fosse anche un lumino acceso, che – per mio modestissimo parere - ha una sua funzionalità molto più interessante sui nostri davanzali, la sera, piuttosto che nelle cappelle ora vuote delle nostre chiese.
Barca. Apparentemente un fallo di gioco. Cosa c’entra? La risposta ce l’ha data sempre papa Francesco nell’omelia già citata: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti», così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. […] Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle.
Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno
nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai. Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare.” E ci sono anche i dettagli tecnici della barca “Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore”. Una barca, un’arca, salvò l’umanità dal diluvio primordiale; una barca ci salverà da questa sciagura.
C: Coronavirus. Ovvio dargli il primo posto in questa casella. “Corona Virus e Covid-19: Cina, 31 dicembre 2019. Si notifica un focolaio nella città di Wuhan, nella provincia di Hubei, di casi di polmonite, di cui si sospetta il possibile meccanismo di trasmissione da animali vivi. La malattia scatenata dal virus, provvisoriamente chiamata “2019-nCoV”, a distanza di pochi giorni viene ribattezzata con “COVID-19”: Corona Virus Disease. Il virus invece ha preso il nome di “Corona”
dall’osservazione al microscopio della sua forma, tanto affascinante quanto pericolosa” (**). È proprio così: le immagini ingrandite del nemico numero uno (il cui nome più giusto pare essere alla fine virus Sars-CoV-2) sono paradossalmente di una bellezza singolare. Non si è risparmiata l’ironia facile sulla denominazione “corona”, come è accaduto alla notizia dell’avvenuto contagio di teste coronate o quasi. Mantenendoci però sul piano del nostro dialogo con la Scrittura, mi sembra terapeutico ricordare non solo la “corona intrecciata di spine” con cui è stato dileggiato Gesù crocifisso, ma anche che “corona” è il nome del primo martire della fede cristiana, Stefano; ed è il termine scelto da Paolo per indicare sia le comunità che aveva fondato, guidato e amato (“mia gioia e mia corona”: Fil 4,1; idem in 1 Ts 2,19) sia l’approdo della sua/nostra vita e delle sue/nostre battaglie nella giustizia e nella gloria di Dio (cf 2 Tm 4,8) . Vorremmo avere la stessa fede, la stessa speranza e lo stesso amore per la Chiesa di Stefano e di Paolo, ovvero le loro corone, per sconfiggere –uniti a Gesù incornato di spine – questo maledetto virus coronato. Se non qui, certo nella vita eterna!
Contatto e contagio. Di per sé sono etimologicamente quasi identici. In realtà il primo termine è neutrale, anzi sempre auspicabile. Solo eventualmente, disgraziatamente è causa del secondo. Questo secondo è l’arma del nemico virale e coronato di cui si diceva poc’anzi. Evitare il primo per scampare al secondo. Ecco, detta grezzamente, la normativa vigente. Essere in contatto con le persone è vitale per tutti, dà vigore alla relazionalità di cui e per la quale siamo stati creati. Eppure stiamo imparando di nuovo che ogni dimensione preziosa del nostro esistere, se non educata, vigilata, curata può mostrare la sua ambivalenza e produrre esiti insperati e dolorosi. Sono un po’ restio a citare il seguente insegnamento di Gesù, mi ha sempre fatto una certa impressione, ma credo dia l’idea (ricordando il legame tra i due “tatto” che stiamo considerando e la mano): “E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna” (Mt 5,30).
Connessione. Ero indeciso se farla valere o no. Però ci sta. Almeno perché questo termine ci dice tre cose che stiamo sperimentando in questa disavventura. Primo: siamo tutti connessi a livello biologico ed ecologico: pianeta, clima, piante, animali e uomini. Ci dicono gli esperti che così sarebbe “nato” il Coronavirus, come ogni altra nuova malattia che è del sistema, e passa da una sua componente all’altra. Eccoci infettati. Non era stato forse così anche nel mito genesiaco: un giardino, un albero coi suoi frutti, un serpente, l’essere umano… e poi un male che ha portato con sé la mortalità (cf Gen 3)?
Secondo: siamo tutti connessi come abitanti di un pianeta senza confini e senza barriere, certamente quando si tratta di malattie contagiose e di crisi economiche. Terzo: la rivoluzione digitale ci ha regalato un modo di esserci, sentirci, vederci, comunicarci appunto perché realmente connessi, anche in regime di lontananza fisica. Troveremo altre parole che ci rammenteranno tutto ciò. In termini cristiani abbiamo imparato a chiamare questa realtà anche Solidarietà, che è un fatto umano e transumano, prima ancora che un impegno. Vedi alla voce corrispondente. 
Complotto. Nel mondo che viviamo non si perde occasione, quando accade qualcosa di eclatante, di teorizzare il complotto. La geopolitica degli ultimi decenni ha certamente favorito le ipotesi dietrologiche in campo. La “seconda guerra fredda” è stata chiamata (Federico Rampini): quella tra USA e Cina. E guarda caso il viaggio del contagio è partito dalla Cina e, passando dall’Europa, è arrivato a devastare gli States. Arma biologica dei cinesi scappata da laboratori segreti a Wuhan. Arma biologica degli americani non scappata, ma effettivamente testata in territorio cinese. Tutti i report scientifici smentiscono ad oggi che la struttura e l’abilità perfide di questo coronavirus possano essere frutto di un’azione artificiale. Ma la suggestione complottistica non perde il suo fascino.
Non diamo retta ai complottisti. Mai. Non serve. Fa male alla verità, alla realtà, al bene da costruire.
Direi di fare nostra l’invocazione del Salmo 64: “Tienimi lontano dal complotto dei malvagi, dal tumulto di chi opera il male”. Anche l’evento più eclatante che ha cambiato la storia dell’umanità, la
risurrezione di Gesù, si è cercato di travisarlo con le armi del potere e del denaro, attraverso un vero complotto (“si riunirono… e dopo essersi consultati diedero una buona somma di denaro ai soldati dicendo: «Dite così…»”), buttando là una “diceria” che perdura “fino a oggi” (Mt 28, 12-13.15).
Chiuso. Parola già di suo mortificante. Siamo soliti vederla con dispiacere (magari pure con stizza) sulle porte di erogatori di servizi utili o di piaceri sani. “Chiuso per ferie”. “Chiuso per lavori”. “Chiuso per inventario”. “Chiuso per trasferimento dell’attività”. Ci capitava anche, ma più di rado, di imbatterci in un “Chiuso per malattia” o “Chiuso per lutto”. Tristi, molto, questi cartelli: ma normalmente di breve durata. Oggi invece questi due agenti, la malattia e la morte, hanno obbligato
le autorità a chiedere la chiusura di tante realtà del vivere sociale, culturale, sportivo. Internazionalmente i media lo chiamano “lockdown”. Trovare chiuso ferisce, perché ci chiude; è asfissiante, perché chiude il raggio delle nostre opportunità e della nostra libera creatività. Nella vita, anche nella storia raccontata nella Scrittura, ci sono chiusure opportune e buone, chiusure sbagliate e limitanti. Ne ricordiamo una decisiva, perché legata al mistero della Pasqua: le “porte chiuse” del Cenacolo dove si nascondono i discepoli di Gesù per paura, dopo il dramma della passione e della morte del Maestro. Il Risorto non se ne cura: Lui sa farsi presente ai suoi senza scardinare quelle porte (cf Gv 20, 19.26). Ma ci volle la discesa potente dello Spirito a far aprire quelle porte perché la Chiesa venisse alla luce del sole e al mondo (cf At 2) Ecco: tanti luoghi chiusi non devono spaventarci, perché il Signore è con noi anche quando le porte sono serrate; ma la tensione ecclesiale
e missionaria deve rimanere aperta nei cuori per poi tornare a realizzare cammini di apertura quando il pericolo sarà superato. Su questo vedi anche alla voce Uscita. 
Canzoni. Qui la do vinta a Claudia. Io rimango scettico sulla validità per il nostro gioco. Ma le sue considerazioni toccano le corde del cuore. “La colonna sonora che cerca di infondere speranza e regalare spensieratezza in queste giornate di quarantena è una compilation nazionale che si apre con l’inno di Mameli e scavalca persino i confini con “Bella ciao”, cantata dagli abitanti di una strada di Bamberg, in Baviera, il 18 marzo, affacciati anch’essi dai balconi e dalle finestre. C’è la musica - tutta italiana - di Manfredi, Albano, Cotugno, Fiorini, Jovanotti, Baglioni. È così che si ritrovano inquilini solisti, piccole orchestre condominiali arrangiate, o una radio accesa sul davanzale con la finestra appena socchiusa. Poi, in alcune regioni, c’è il silenzio di chi non riesce a dare voce al dolore di certe giornate. Lì la musica si ferma, il volume si abbassa e – adesso – è giusto che si rispetti il
silenzio” (**). Chi legge la Bibbia sa che non solo troviamo in essa uno dei repertori più preziosi di canti (i Salmi nel libro omonimo e i Cantici collocati qui e là nella maggior parte degli altri libri), ma anche che il cantare fa comunque bene e eleva sempre la mente e il cuore. L’imperativo “cantate!” è tra i più frequenti nell’Antico Testamento e quasi sempre è legato alla salvezza, alla liberazione, alla guarigione, come realtà già avute in dono da Dio. E anche le comunità cristiane sapevano gustare
del medesimo intrattenimento spirituale: “Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori” (Col 3,16).
Crisi. Questa parola ha la sventura di andare bene praticamente sempre. Siamo un mondo sempre in crisi. Crisi esistenziali. Crisi morali. Crisi di panico. Crisi spirituali. Crisi di governo. Crisi economica. Crisi di fede. Crisi vocazionali… e poi tutte le crisi somatiche: crisi cardiache,
crisi respiratorie, ecc. Si danno in aggiunta tutti i rapporti di causa ed effetto che legano queste debacles tra loro, in vari incastri. Non c’è possibilità di smentita: anche il Covid-19 sta producendo una crisi di portata enorme, e a tantissimi livelli (una somma di crisi). L’etimologia e la filosofia ci hanno però sempre insegnato (anche all’esegesi biblica e alla teologia cristiana) un cosa che trova successo nella retorica e nell’oratoria laica e religiosa di molti: crisi vuol dire scelta, decisione; un momento critico può volgere al bene come al male; quindi è sempre un momento di per sé non deprecabile, anzi un momento di libertà e di crescita, perché ci è dato per scegliere da che parte stare e andare, per decidere noi da quale parte del crinale scendere per rilanciare in piano la nostra vita.
Dice il Siracide: “un cuore consolidato da matura riflessione non si scoraggia nel momento critico” (Sir 22,16b).
Casa. Vince ancora la finezza di Claudia. “Che l’isolamento sia volontario o no, l’ambiente domestico in questi giorni è lo spazio in cui, per senso di responsabilità, si è chiamati a stare. Che sia grande, bella, nuova, vecchia, con lavori in corso o in costruzione, in affitto con i coinquilini, piccola e stretta per stare con i genitori anziani. Ognuno è giusto che abbia una sua versione di questo ambiente. “Casa” è anche lo spazio desiderato dai più deboli, coloro i quali vivono in condizioni di
emarginazione e difficoltà economica” (**). Io resto a casa è il titolo del D.P.C.M. (=Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) dell’11 marzo scorso, diventato oggi il leitmotiv del cittadino modello. La casa è – dovrebbe esserlo – il luogo degli affetti più cari, dei ricordi, dell’intimità, della privacy e della sicurezza, del riposo e del relax, dei nostri tesori (materiali e non), dei piaceri più autentici (come la tavola, la lettura, la musica, la botanica, ecc.) gustati al massimo, sulla “mia”
(= di ciascuno) misura. La casa è anche il luogo della forma di socialità più impegnativa e della
forma di carità più completa e onerosa: la famiglia (su cui torneremo alla voce corrispondente); ma anche il vicinato (a corta, media, lunga distanza) e l’ospitalità (a breve, media, lunga durata).
La casa è anche il luogo della preghiera, quella “nel segreto” che solo Dio Padre può vedere e ricompensare (cf Mt 6,6). Per i primi decenni della vita della Chiesa la casa è stata anche il luogo
delle comunità cristiane e del gesto vitale dello spezzare del pane (cf Atti degli apostoli e Lettere paoline). Nella Scrittura uno dei giochi di parole più intrigante e più noto riguarda proprio la casa: al re Davide che vuole costruire una casa (un tempio di pietra) per il suo Signore, Questi risponde dicendo che sarà Lui a costruire una casa al re, intendendo un casato, una discendenza (cf 2 Sam 7). È così per tutti e sempre: ciò che fa casa non sono le strutture edilizie ma l’umanità che le abita.
Amiamo le nostre case. Teniamole pulite e ordinate. Viviamole in tutte le loro poche o tante potenzialità. Anche se adesso ci sembra di essere agli arresti domiciliari, impariamo invece a conoscere e rispettare la portata professionale di chi è casalinga/o, e facciamo della quiete
domestica un regalo sempre pronto, a noi stessi e ai nostri cari.
D: Droplet. Questa è da campioni. Secondo me pochi conoscevano questo termine, anche se riguarda un’esperienza comunissima che tutti abbiamo fatto. Qualche esempio tratto dalle mie due professioni.
Quando insegno o predico, dopo un certo tempo mi accorgo che i fogli, i libri, la cattedra, l’ambone si sono inumiditi da quelle gocce di saliva che inevitabilmente accompagnano nell’aria la mia voce e quindi il mio parlare. Quando c’è un particolare direzionamento della luce, queste gocce le vedo io e le vedono anche i miei interlocutori. Vale il reciproco: quando gli studenti o i fedeli vengono a colloquio (di esame o sacramentale), questo incolpevole fluire organico può non essere sempre impercettibile né tanto meno piacevole. Il tutto è accresciuto esponenzialmente quando ci capita di starnutire o tossire. Ecco, in inglese “droplet” significa anzitutto “gocciolina”: e oggi questa parola
viene molto usata per indicare la capacità infettante che queste goccioline possiedono, il loro ruolo nella trasmissione del virus e quindi i criteri per la distanza di sicurezza che viene richiesta a ciascuno di noi. Si parla di effetto droplet, rischio droplet, distanza droplet, criterio droplet, norma droplet.
Imparo da Massimo Arcangeli, su Il Fatto quotidiano: “le goccioline infettanti sono piuttosto grandi – superano i 5 μm (micrometri, ‘milionesimi di metri’) – e hanno un ristretto raggio d’azione, che può anche aumentare in dipendenza da determinati fattori (una maggiore densità delle microgocce salivari, una più alta velocità d’espulsione, una maggiore umidità o ventilazione ambientale).
[…] Le secrezioni rimangono in sospensione nell’aria per un breve lasso temporale, penetrano nell’organismo attraverso mucose di particolare permeabilità (gli occhi, il naso o la bocca) e possono
trasmettere per via aerea diversi virus respiratori (oltre al coronavirus: l’adenovirus, i virus responsabili di influenze e parainfluenze, ecc.). Sono agenti patogeni diversi dai residui di goccioline evaporate, responsabili di infezione respiratorie trasmesse per dispersione (airborne infection), che possono rimanere sospese nell’aria per un più lungo periodo di tempo. Qualche scienziato ha ipotizzato che il coronavirus potrebbe contagiare anche così, rimanendo in sospensione più a lungo di quanto generalmente si pensi. Mancano ancora però, per fortuna, prove sicure al riguardo”.
Dopo tanto tecnicismo un po’ ansiogeno, vale la pena ricordare che la saliva è un dono naturale preziosissimo, che accompagna la nostra respirazione, fonazione, manducazione, e che è ricco di elementi sani e sanificanti. Il ricorso alla Scrittura potrebbe sembrare fuori luogo o impallidire. Ma
non posso non evocare un altro sputo, un’altra saliva che hanno invece portato luce, guarigione, salvezza: “«…sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco” (Gv 9,5-6). Grazie per questo tuo sputo Gesù, e perché
nei giorni della tua passione hai sopportato per noi gli sputi, prima del sinedrio e poi dei soldati del governatore (cf Mt 26,67 e 27,30). Il tuo sputo ci salva; i nostri sputi ci fanno vergognare. Di gocce di misericordia abbiamo tanto bisogno oggi. Distanza. Qui Silvia è arrivata prima. “Quella “giusta” (che nei rapporti è praticamente impossibile trovare) oggi ha ufficialmente una misura: un metro e mezzo (con varianti che vanno da un metro e ottanta centimetri fino a quattro metri e mezzo). È uno dei pochi sistemi per evitare il contagio. Ma è anche la cifra di un cambio radicale delle nostre abitudini nazionali, piuttosto affettuose. Niente baci sulle guance ad amici e conoscenti, per non dire degli abbracci. Così il paradosso è che l’unico modo per dimostrare affetto è stare lontani” (*). Ne è venuto anche un concetto che è quotidianamente sulle labbra di politici e periti: il “distanziamento sociale”.
Per chi crede nel principio della prossimità attiva e concreta insegnato da Gesù (il “farsi prossimo” del buon Samaritano) è ancora più insopportabile come premura. Stiamo però imparando che davvero c’è una carità specifica anche nel non mettere in pericolo gli altri. Ma soprattutto dobbiamo affermare che nemmeno il Covid-19 potrebbe far sparire i Samaritani buoni di cui – nonostante quello che si pensa e si dice – è piena la terra. Anzi grazie alla sua azione malefica ne stiamo conoscendo un esercito, per i quali ammirazione e commozione sono ancora troppo poco. E se la distanza dovrebbe impedire il contagio (“I miei amici e i miei compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini
stanno a distanza”: Sal 38,12), certo non impedisce l’opera della grazia di Gesù (“gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!»”: Lc 17, 12-13). C’è da aggiungere la variante anche in questo caso buona, molto buona,
di questa distanza per decreto. Esistono da tempo cose encomiabili che si fanno a distanza, come le “adozioni”. Come si dice, “fare di necessità virtù”. E il distanziamento sociale ha mostrato alla maggioranza dei cittadini e sta insegnando a tutti ciò che fino a pochi mesi fa era ancora privilegio da élite o utopia da film: l’agire con profitto “tele” (prefisso greco che appunto significa “da lontano”, “a
distanza”). Al di là del telegrafo, del telefono, della televisione, esistono il telelavoro e la telescuola. Detti in modo più chic: lo smart working e l’e-learnig. “Smart working: “lavoro agile”: è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli
orari o spaziali. Ove ci sono state le possibilità e dove le mansioni lo prevedevano, tante sono state le aziende che si sono attrezzare per permettere ai loro dipendenti di lavorare a distanza” (**). E-learnig o didattica a distanza: “Gli studenti si ritrovano adesso a dover seguire le lezioni da casa tramite video, chat di gruppo, collegamenti offline e online; gli insegnanti correggono file word dal
computer, fanno l’appello su registri virtuali, caricano contenuti e compiti su apposite piattaforme” (**). Pur da incompetente in materia, ritengo che una della più belle notizie, in un oceano di bollettini di guerra, sia quella della generalmente buona tenuta e riuscita, soprattutto per gli studenti e i loro insegnanti (scontati i limiti di un meccanismo che non si era preparati a usare in modo così massivo). A detta dei più, non c’è paragone: il lavoro e lo studio riescono meglio negli habitat ad essi deputati. E anche su questo l’attesa è fervente fino all’incredibile: così tante e sincere voglie di andare in ufficio e a lezione non si erano viste da parecchio tempo. Vedi anche alla voce Remoto. Pullulano le battute sul fatto che a disturbare la strumentazione digitale necessaria per questi prodigi postmoderni quali il telelavoro e la telescuola siano proprio i “virus”; e che il materiale più accattivante, a torto o a ragione, che circola sulle diverse piattaforme viene definito “virale”. Scrive Claudia: “Virale: anche la percezione di questo aggettivo è stata stravolta rispetto all’uso che se ne faceva fino a poche settimane fa. Se infatti prima indicava un contenuto la cui diffusione sul web e sui social era considerata dilagante e inarrestabile, oggi “virale” è tornato ad acquisire il suo significato più letterale e autentico, provocando allarme e preoccupazione “(**). Su ogni fronte c’è da combattere contro un virus, ma lo si fa a partire da un’acquisizione oggi ancora più forte: scuola e lavoro hanno la priorità assoluta per una società che si possa chiamare civile.
Desiderio. Questa è una parola di altissima caratura. Mi sia consentito, prima di esplicitare perché ci sta in questo nostro particolare dizionario, di riportare la riflessione a mio giudizio più bella sull’importanza del desiderio. Sono parole intramontabili di Sant’Agostino, nel suo commento alla Prima lettera di San Giovanni. A: tema c’è la visione di Dio come destino ultimo della nostra vita.
“Non potendo voi ora vedere questa visione, vostro impegno sia desiderarla. La vita di un buon cristiano è tutta un santo desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati, cosicché potrai essere riempito quando giungerai alla visione. Ammettiamo che tu debba riempire un grosso sacco e sai che è molto voluminoso quello che ti sarà dato; ti preoccupi di allargare il sacco o l'otre o qualsiasi altro tipo di recipiente, più che puoi;
sai quanto hai da metterci dentro e vedi che è piccolo; allargandolo lo rendi più capace. Allo stesso modo Dio con l'attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque, o fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. […] In questo consiste la nostra vita: esercitarci col desiderio. Saremo tanto più vivificati da questo desiderio santo, quanto più allontaneremo i nostri desideri dall'amore del mondo. Già l'abbiamo detto più volte: il
recipiente da riempire deve essere svuotato. Tu devi essere riempito di bene: liberati dunque dal male. Supponi che Dio ti voglia riempire di miele: se sei pieno di aceto, dove metterai il miele? Bisogna gettar via il contenuto del vaso, anzi bisogna addirittura pulire il vaso, pulirlo faticosamente coi detersivi, perché si presenti atto ad accogliere questa realtà misteriosa. La chiameremo impropriamente oro, la chiameremo vino. Qualunque cosa diciamo intorno a questa realtà inesprimibile, qualunque cosa ci sforziamo di dire, è racchiuso in questo nome: Dio. Ma quando lo abbiamo pronunciato, che cosa abbiamo pronunciato, che cosa abbiamo detto? Sono forse queste due sillabe tutto quel che aspettiamo? Qualunque cosa dunque siamo capaci di dire, è al di sotto della realtà: dilatiamoci col desiderio di lui, cosicché ci possa riempire, quando verrà. Saremo infatti simili a lui, perché lo vedremo così com'è”. Personalmente ho letto poche cose che mi abbiano sedotto come queste righe. Ma perché il desiderio è parola da Covid-19? Per almeno due ragioni. La prima è semplicissima da dire: perché stiamo desiderando tutti la fine e una fine buona di tutto questo; perché desideriamo la guarigione dei malati; perché desideriamo la vita; perché desideriamo la ripresa.
Perché il desiderio di Dio nei termini della visione beatifica di Lui è ancora troppo vertiginoso per noi mortali impauriti e di fede fragile. Vedi anche alla voce Attesa. La seconda ragione è più specifica e tutta ecclesiale. Mai come in questa situazione sfavorevole è ritornata in auge la dottrina cattolica del votum sacramenti, ovvero del “desiderio del sacramento”: a determinate condizioni – soprattutto di pericolo di vita – è possibile fruire efficacemente della grazia sacramentale senza l’effettiva celebrazione del rito corrispondente. Non si può andare a Messa né fare la comunione eucaristica; non si può celebrare il sacramento della Penitenza e ricevere l’assoluzione sacramentale individuale;
conseguentemente non si può lucrare un’indulgenza, alle condizioni consuete, mancando i due suddetti atti sacramentali. Bene, disponiamoci ad esercitare la forza del desiderio: reimpariamo la
comunione spirituale, scopriamo cosa sono gli atti di contrizione sincera, affidiamoci con retta intenzione al tesoro di misericordia (sempre disponibile) di Gesù, di Maria e dei Santi. Il desiderio ci salverà. “Signore, è davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito non ti è nascosto” (Sal 38,10). “Hai esaudito il desiderio del suo cuore, non hai respinto la richiesta delle sue labbra” (Sal 21,3).
Disperazione e Dio. Tengo insieme qui queste due parole perché sono in esatta contrapposizione. Ce lo aveva insegnato magistralmente Benedetto XVI nella Spe Salvi, ai nn. 2-3: “Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2,12) […] Gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano «senza
Dio nel mondo». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza”. Oggi la disperazione è palpabile nell’aria, e quindi dovunque. Ma dove c’è Dio, per chi “ha Dio nel mondo” c’è speranza. Allora è davvero in questione Dio. Da sempre e comunque: la questione sarà sempre Dio. Chi è disperato ha davvero bisogno di trovare qualcuno capace di offrirgli sic et simpliciter Dio. È l’occasione propizia per ricoprire la vocazione di tutta la Chiesa nel mondo, che è questa: offrire l’incontro con Dio, la sua compagnia, la sua consolazione, il suo conforto. Circa il rapporto di causalità che potrebbe legare Dio con la pandemia, ho già avuto modo di scrivere; rimando là l’amico lettore.
E: Epidemia. Gioco facile per tutti. Ogni cosa è partita da lì. Anche se – purtroppo per noi – la parola è stata troppo presto detronizzata dalla cugina più cattiva, Pandemia, alla cui voce rimandiamo. “Epidemia indica un fenomeno dannoso, una grave malattia (la peste, la lebbra, il tifo…) la cui manifestazione è frequente, localizzata e di durata limitata” (**). Fosse stato “solo” così… metteremmo la firma a quel “localizzata e di durata limitata”. La storia sacra dell’Antico Testamento è particolarmente segnata dalle epidemie di peste, paradossalmente mandate da Dio e guarite da Dio. L’Apocalisse le attribuisce invece al Cavaliere Verde: “Ecco, un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loro potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra” (Ap 6,8). È
potente, lui e i suoi sgherri: ma può agire solo su una porzione di umanità, e soprattutto è vinto dal Cavaliere Bianco, già “vittorioso” e che “vince ancora” (Ap 6,2). 
Emergenza. Siamo in stato di emergenza. Lo capiamo da soli e lo dichiarano ufficialmente sempre più governi delle nazioni del pianeta. Ma lasciamoci provocare dalla bella ambivalenza della parola. Anche lo Zingarelli separa rigorosamente le due accezioni. “Situazione pubblica pericolosa che richiede provvedimenti eccezionali”. E questo è sotto gli occhi di tutti. “Ciò che emerge, sporge, affiora; fatto, fenomeno, reperto di particolare importanza”. E questo è meno condiviso, ma è la
prospettiva anche della fede cristiana. Da tutto ciò potrà “emergere” qualcosa di importante. O anche: tutto ciò ci aiuta a far “emergere” le cose che veramente contano nella vita. Vedi anche alla voce Vita e Valori. Il prodigio dell’Esodo, della liberazione, è stato un evento di emergenza: “Si vide la nube coprire d'ombra l'accampamento, terra asciutta emergere dove prima c'era acqua: il Mar Rosso divenne una strada senza ostacoli e flutti violenti una pianura piena d'erba” (Sap 19,7). Dentro la frenesia e la fretta dell’urgenza e della fuga emergono i sentieri di libertà che Dio ha predisposto per noi.
Ecosistema. Ne abbiamo accennato meditando la parola Connessione. Gli esseri viventi, l’ambiente, le condizioni fisicochimiche sono inseparabili e sviluppano nel bene e nel male interazioni reciproche. La provenienza del virus (la “colpa” del virus) ma anche la sua possibile estinzione (la “salvezza” dal virus) dipendono da questo insieme. Proviamo a leggere questi dati della natura e della scienza come parabola; perché no? Gesù lo faceva… impariamo a vivere insieme e a dividerci equamente responsabilità e colpe. E non scordiamo le parole di Papa Francesco: “Desidero recepire qui l’equilibrata posizione di san Giovanni Paolo II, il quale metteva in risalto i benefici dei progressi scientifici e tecnologici, che «manifestano quanto sia nobile la vocazione dell’uomo a partecipare responsabilmente all’azione creatrice di Dio», ma che al tempo stesso ricordava «come ogni
intervento in un’area dell’ecosistema non possa prescindere dal considerare le sue conseguenze in altre aree»” (Laudato si’, n. 131).
Esequie. Tocchiamo qui una delle conseguenze più dolorose (si intende dopo la morte delle persone in solitudine, senza la vicinanza e la carezza di un familiare o di un amico) della pandemia e delle misure adottate per arginarla. Il divieto di celebrare le esequie nella forma consueta, nelle chiese e nelle case funerarie (o sale del commiato). Viene ammessa solo la benedizione della salma al cimitero prima della tumulazione o dell’urna cineraria, ma in forma strettamente privata. Turbamento ulteriore suscitano le testimonianze (al limite del macabro) sul modo sbrigativo e senza volerlo irrispettoso con cui vengono composti (forse meglio dire “scomposti”) i cadaveri. È stato scritto da molti che questa delibera – pur comprensibile dal punto di vista sanitario – ha colpito “a morte” (quasi una doppia morte) la pietas, cioè quel composto di presenze, parole, gesti, simboli, riti, tradizioni, usanze capaci di esprimere la compassione tra le persone, la “condoglianza” nel senso pieno e non retorico del termine. Le esequie, si sa, non sono fondamentali tanto per il defunto, quanto per chi rimane a elaborare il lutto. Questa sarà una ferita difficilissima da rimarginare. Né ci conforta il detto durissimo di Gesù, quando spiegava le esigenze della sequela cristiana, rispondendo a un figlio che chiedeva il tempo per seppellire il proprio papà: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va' e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,60). A meno che questa terribile prova non aiuti davvero, seppur dolorosamente, una conversione al primato di Dio e del suo regno (come appunto sembrerebbe insegnare il Maestro). Comunque fa male, tanto. Ma credo non sia utile, nemmeno in questo caso pietoso, prendersela con le disposizioni di sicurezza, né tentare di scavalcarle, sebbene la
Scrittura ci abbia consegnato un esempio trasgressivo e commovente: padre e figlio, Tobi e Tobia, che nonostante il divieto del re di Ninive, si preoccupano della sepoltura degli ebrei della tribù di Neftali in esilio (cf Tb 2).
Esercito. “Sono circa ventimila i militari scesi in campo che stanno prestando servizio in tutto il territorio italiano. Li vediamo adoperarsi nell’allestimento degli ospedali da campo nelle aree più colpite e in quelle che si preparano a registrare il picco dei contagi, schierati in strada contro le violazioni delle restrizioni adottate dal Governo. È l’esercito che ha assolto un duro compito, quello rappresentato nell’immagine che è forse la più dolorosa di questa vicenda. “C’è l’Italia che porta l’Italia” nello scatto che resta immobile nella memoria nazionale: quei settanta mezzi militari muoversi lentamente in fila, a trasportare le salme dei cittadini di Bergamo fuori dalla città” (**).
Per un potenziale obiettore di coscienza (per timore della caserma, più che per convinzione pacifista) come me, vale la pena sfruttare l’occasione per dire che i militari e tutte le forze dell’ordine sono una
risorsa indispensabile e meritevole di tanto, da parte di tutti. So che c’entra poco, ma alla fine è sempre un gioco quello che stiamo facendo… e allora mi sia concessa l’invocazione antica, sempre valida anche se elegantemente decaduta, quella al Signore degli eserciti: “Dio degli eserciti, fa' che ritorniamo, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal 80,8).
Eroe. C’è dibattito se sia giusto chiamare così i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari (oss, osa, ausiliari, volontari, ecc.). Stanno davvero facendo un lavoro straordinario, si usa dire instancabile ma invece stremante. Sono loro stessi però a rifiutare la definizione di eroi. Sembrano incarnare il monito di Gesù “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»” (Lc 17,10). Ma secondo me è davvero eroica la loro dedizione. Nel senso autentico con cui li descrive Papa Francesco parlando ai giovani nella Domenica delle Palme senza Palme di questo 2020: “Cari amici, guardate ai veri eroi, che in questi giorni vengono alla luce: non sono quelli che hanno fama, soldi e successo, ma quelli che danno
sé stessi per servire gli altri. Sentitevi chiamati a mettere in gioco la vita. Non abbiate paura di spenderla per Dio e per gli altri, ci guadagnerete! Perché la vita è un dono che si riceve donandosi. E perché la gioia più grande è dire sì all’amore, senza se e senza ma. Dire sì all’amore, senza
se e senza ma. Come ha fatto Gesù per noi”.
F: Focolaio. “Se nel linguaggio medico-scientifico è la sede di un processo patologico, nella sua accezione più rara si trova anche “focolare” che ha un rimando ben diverso. In relazione al fatto che il focolare era nel passato la parte più intima della casa, esso rimane simbolo della casa
stessa e dell’intimità familiare” (**). Questa volta è Claudia a battermi sulla capacità di approfittare delle ambivalenze semantiche. “Luogo pericoloso” e “luogo di sicurezza” accostati insieme, perché possono tragicamente arrivare a coincidere: quando un quartiere, un paese, una città, una provincia, che sono tutti un insieme di focolari domestici, viene circoscritto e chiuso perché focolaio epidemico. Tutto dipende da quale fuoco si parla. Come non pensare alle parole di Gesù: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). Vorremmo che tutti e tutto oggi venissero accesi dal fuoco di Gesù, che come ogni fuoco purifica, illumina, scalda, consuma. Sia il
25 fuoco dello Spirito a scendere sui focolai e sui focolari dei nostri giorni, per sopraffare il fuoco mortifero del morbo e ravvivare il fuoco vivo della fede e della carità.
Febbre. È il primo dei sintomi per un’eventuale conclamazione di contagio avvenuto. È il parametro che si vorrebbe misurare alle persone nei luoghi pubblici rimasti aperti per l’essenziale della via sociale, per poi selezionare gli ingressi e le interazioni più sicuri. Tutto corretto. Ma il sentirsi la febbre in corpo, il misurarsela magari continuamente sono diventati l’assillo più diffuso, anche per chi sa lucidamente che a tutti e spesso può capitare una variazione di lineette del termometro per
ragioni assolutamente lievi e innocue. Gli ipocondriaci come me si dividono in due categorie: chi se la misura a ogni battito d’ansia, chi non se la misura proprio, per non fare brutte scoperte che lo
devasterebbero. Nei Vangeli la febbre più nota è quella della suocera di Pietro, che fu occasione di uno dei primi e – nella sua linearità – più istruttivi miracoli di Gesù: “La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano;
la febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1, 30-31). Quante cose in due versetti: l’importanza di parlare a Gesù di chi sta male; la tenerezza di un accostarsi e di un toccare da parte di Gesù; il servizio agli altri come effetto e riconoscenza della sperimentata guarigione. Laddove c’è febbre, ci sia sempre anche qualcuno che si prende cura di noi, e ci sia sempre Gesù con la sua mano amorevole. Mi risuona nel cuore un frammento di antifona ambrosiana “Cristo è tutto per noi… se
la febbre ti brucia, è acqua che ti rinfresca”. Farmaco. Nel caos dei pareri pure autorevoli che ci piombano addosso, una cosa l’abbiamo tristemente capita. Per il Covid-19 non c’è il farmaco ad hoc; non esiste; non è stato ancora creato. C’è l’impegno sperimentale (qualche maligno direbbe casuale”) di provarne tanti esistenti, alcuni utilizzati e già superati per altre infezioni virali (come ad esempio Hiv, epatite C, ebola, Sars, Mers), o per altre patologie (come ad esempio l’artrite reumatoide). C’è il tentativo di trattare con le cellule staminali. E non mancano i cocktail. Ad accrescere il caos si sono
aggiunte notizie disordinate, spesso smentite, riguardanti pericolose associazioni tra farmaci di comune fruizione e il coronavirus. In tutto questo bailamme, le farmacie sono rimaste fin dall’inizio presidi aperti e disponibili alla popolazione. Onore anche ai farmacisti, chiamati non solo a vendere prodotti, ma a dare consigli e rassicurazioni, spesso anche di solo calore umano e spirituale. Nel nostro gioco serio di accostare la Scrittura, mi diverte qui citare semplicemente quel versetto in cui Paolo si improvvisa farmacista dando consigli a Timoteo: “Non bere soltanto acqua, ma bevi un po'
di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi” (1 Tm 5,23). Onore anche ai ricercatori e agli amministratori delle aziende farmaceutiche, quando fanno non del profitto, ma del bene comune il criterio del loro lavoro e del loro investimento. 
Fasi. Gli scienziati ci raccontano che la lotta contro il Covid-19 dovrebbe seguire tre fasi. La prima fase: quella del “Restiamo a casa” o lockdown per fermare la crescita del contagio e circoscrivere i contagiati. La seconda fase quella della convivenza con il contagio indebolito e i contagiati in via di guarigione: prevede ancora tante precauzioni; obbligo di mascherine; test per saggiare l’immunità acquisita; un primo ritorno al lavoro (a scuola oramai pare si sia fuori tempo massimo). La terza fase: meno descritta, scaramanticamente o per ignoranza incolpevole, comunque prevederebbe una ricomposizione completa del tessuto sociale e una ripartenza delle sue attività. Tutte le cose importanti della vita hanno una gradualità di espressione e di costruzione. Anche l’insegnamento della Chiesa ha fatto suo questo principio etico, chiamato la legge della gradualità. Un passo alla volta, un gradino alla volta, prima una fase poi l’altra. Nell’attenerci alla catena delle fasi c’è una scuola di saggezza di vita che non va trascurata. Il vangelo di Marco racconta uno dei tanti miracoli di guarigione, compiuto tuttavia in un modo singolare: “Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». Quello,
alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa” (Mc 8, 22-25). Interessante: quella che sembrerebbe una défaillance del taumaturgo Gesù, in realtà è un insegnamento circa il bisogno di procedere, in alcuni frangenti, appunto per fasi: una prima imposizione delle mani, con un primo effetto parziale; una seconda
imposizione delle mani, con effetto completo.
Flashmob. “Il termine è stato coniato nel 2003 per indicare un’azione improvvisa che trova luogo in un tempo e in uno spazio preciso, organizzata da un gruppo di persone, su iniziativa spontanea e
volontaria. È una delle dinamiche che sono figlie dell’era digitale e che offrono occasioni di condivisione, di protesta, di solidarietà tra la gente. Ai tempi del Corona Virus, il flashmob – almeno in Italia – a partire dal 12 marzo, è un appuntamento nazionale che ha un orario e un luogo
stabilito: ore 18, finestre e balconi. Nel rispetto delle regole, l’iniziativa dilaga da Nord a Sud e permette a chi è chiuso in casa di sentirsi meno solo. Strappa un sorriso, fa cantare, può commuovere, può perfino far riscoprire una parte dell’identità nazionale italiana che, anche nei momenti di maggiore difficoltà, cerca di non perdere speranza e leggerezza” (**). Nulla da aggiungere, se non – a mio parere – il rispetto da garantire a chi non capisce questo linguaggio nuovo e trova irriverente spezzare così il raccoglimento del lutto o della preghiera; oppure lo giudica offensivo nei confronti di chi non può concedersi pause dal lavoro e dalla fatica di vivere. Ricordate Mical, figli di Saul, che disprezzò la danza di Davide? Sbagliava, e infatti pagò con la sterilità questo suo disprezzo (cf 2 Sam 6). Ma bisogna comprendere che non tutti riescono a leggere allo stesso modo certa caciara.
Famiglia. Ancora una parola bella, buona anche per il contesto del nostro gioco. Eh sì, perché il restare a casa per molti coincide con il restare in famiglia. Ma non per tutti e non sempre è facile.
Non per tutti: ci penso spesso, ogni volta che si fa troppa enfasi sulla famiglia, anche in ambito ecclesiale-pastorale; ci sono tante persone “senza famiglia” (ricordi struggenti dell’infanzia letteraria e televisiva: cf Remì), per mille motivi; ci sono persone sole: o rimaste sole, o sole per scelta, o sole per incapacità relazionale, o sole perché ferite e abbandonate. Non dimentichiamole; in tempi come i nostri può essere che soffrano più di altri. Non sempre è facile: la convivenza prolungata, tendenzialmente totalizzante, può accentuare le normali frizioni, i disaccordi e le idiosincrasie. Se poi gli spazi domestici sono risicati, è davvero difficoltoso. Nel caso ci sia un effettivo o presunto contagiato, per lo più non si riesce a mantenere il famigerato metro di distanza, se non a prezzo di una vera e propria reclusione in un locale che diventa psicologicamente sempre più angusto e soffocante.
Ne approfitto – e mi scuso per la digressione – per suggerire una riflessione delicata che mi sta molto a cuore. Mi rivolgo ai cattolici e non solo, in particolare a quelli che si sento chiamati per condurre la
crociata a difesa della famiglia naturale o tradizionale (come viene definita) quale “unica famiglia possibile”. La mia preoccupazione nasce da un dato puramente lessicale. “Famiglia” non è vocabolo univoco, nemmeno nei nostri discorsi cristiani ed ecclesiali: parliamo comunemente, e senza dare scandalo alcuno, di famiglia umana (intendendo il genere umano nella sua nativa fratellanza e solidarietà), di famiglia di Dio (intendendo il mistero della Chiesa), di famiglia cristiana o “di questa famiglia che hai convocato alla tua presenza” (intendendo le singole comunità parrocchiali –chiamate anche “famiglia di famiglie” – e le singole assemblee liturgiche), di famiglia religiosa (intendendo ciascuna delle tante articolazioni dei carismi di vita consacrata), di case famiglia (intendendo quei benemeriti contesti protetti dedicati a minori in difficoltà o ad altre gravi forme di fragilità sociale), fino a usare il termine per ogni istituzione dove ci si richiama a un’appartenenza non solo effettiva ma anche affettiva (un’università, un’azienda, ecc.). Quindi non un termine univoco, ma analogico. Certo il princeps analogatum (detto all’antica) è la famiglia composta da papà, mamma e figli. Ma cosa lega tutti gli altri analogati, se non il dato di una relazionalità vera, profonda, responsabilizzante, calda e rassicurante, pur foriera di fatiche e tensioni, con posizioni sia orizzontali o di parità
sia verticali o asimmetriche? Non è stato forse lo stesso Gesù ad aprire e rivoluzionare in tal senso
le categorie familiari naturali: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,34). Fatta salva la differenza certamente lessicale tra famiglia e matrimonio, e non avendo nulla da obiettare alla specificità della vocazione alla famiglia fondata sul matrimonio, e in particolare alla declinazione sacramentale del matrimonio cristiano e della famiglia che esso produce, la mia opinione è che non ci sia da strapparsi le vesti nel
perlomeno lasciar utilizzare la parola “famiglia” per tutte le situazioni di relazionalità affettiva seria e responsabile (che siano capite o meno, condivise o meno, le scelte di vita delle persone nella loro inviolabile dignità). Che poi espressioni come “famiglie aperte”, “famiglie allargate”, “famiglie arcobaleno”, “nuove famiglie”, ecc., possano piacere o siano adeguate, interessa relativamente.
Fundraising. Significa semplicemente “raccolta di fondi”, ma sembra piacere di più usare l’inglese. L’emergenza sanitaria è immediatamente diventata emergenza economica: a rischio imprese, produttività, occupazione, investimenti; cultura, ristorazione e turismo stanno subendo un colpo mortale; strutture e operatori sanitari necessitano sostentamento eccezionale; chiese e comunità cristiane sono private del consueto contributo generoso e libero delle offerte domenicali e di quelle per le messe di suffragio. Accanto a tutto questo l’urgenza di sempre: i poveri, gli ultimi, gli esclusi, i senza casa e senza lavoro, di qualsiasi provenienza. Il tempo del Covid-19 è tempo nel quale non possono latitare l’impegno civico delle donazioni e il comandamento cristiano della carità. Certo le
istituzioni mondiali, europee, nazionali (commissari, ministeri economici, banche centrali e non) hanno una responsabilità enorme che non possono disattendere e che devono tradurre in coraggio e
creatività di iniziative. Ma tanti abbisognano subito del necessario e quindi di cuori e mani pronti a condividere, dare, aiutare. San Paolo fu ideatore del primo grande fundraising: la colletta per la
Chiesa di Gerusalemme e per i poveri. “Vogliamo rendervi nota, fratelli, la grazia di Dio concessa alle Chiese della Macedonia, perché, nella grande prova della tribolazione, la loro gioia sovrabbondante e la loro estrema povertà hanno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità. Posso testimoniare infatti che hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, domandandoci con molta insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a
vantaggio dei santi. Superando anzi le nostre stesse speranze, si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio; cosicché abbiamo pregato Tito che, come l'aveva cominciata, così portasse a compimento fra voi quest'opera generosa” (2 Cor 8, 1-6). Un inno alla generosità vissuta con gioia e pur nella ristrettezza. Un inno al Dio dell’amore e alla carità dedicata a Dio.
Vedi anche alla voce Recessione.
G: Grazie. “È la parola con cui si esprime gratitudine e riconoscenza nei confronti di chi si sta adoperando per far fronte all’emergenza sanitaria in corso. Il grazie è sentito e ci auguriamo che -quando tutto sarà finito - la riconoscenza per queste persone rimanga impressa nella memoria
collettiva” (**). “Rendere grazie” è il cuore dell’esperienza cristiana: è eucaristia in senso lato. Il primato rimane il “grazie a Dio”: “Ora guardate quello che ha fatto per voi e ringraziatelo con tutta la voce; benedite il Signore che è giusto e date gloria al re dei secoli” (Tb 13,7). Ma come vale per il duplice comandamento dell’amore, così è per la gratitudine: la si deve anche al prossimo. Non solo essere grati, non solo dire grazie, ma restituire grazie: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Ricordiamolo sempre, adesso e dopo. Globalizzazione. Se qualcuno avesse ancora dubbi, eccoci servita “morbosamente” la conferma che la globalizzazione è un fenomeno irreversibile (a tutti i livelli): vedi considerazioni già fatte a proposito di Connessione e di Ecosistema.
Aggiungerei la segnalazione di due epifenomeni antitetici che riguardano la complessità di questa globalizzazione: uno ne è un frutto saporoso; l’altro ne è un ostacolo ancora problematico. Mi riferisco, da una parte, all’osmosi generosa, senza vincoli doganali e senza pregiudiziali linguistico-culturali, di personale medico-infermieristico e di materiale sanitario: paesi più grandi e anche più piccoli del nostro hanno voluto mandarci aiuti preziosi, come anche noi ci si è resi disponibili in altre situazioni analoghe. Dall’altra parte, la chiusura dei confini e delle frontiere, o comunque l’inasprimento di controlli e di selettività nel passaggio di persone e merci da un paese all’altro. Scelta comprensibile e resasi necessaria per alcuni aspetti di sicurezza, ma da vigilare perché non diventi scusa per un’inversione di rotta nazionalistica e sovranista che possa perdurare passata l’emergenza. Per i cristiani il fenomeno della globalizzazione, in questa sua complessità dialettica, è solo l’altra faccia della medaglia di quella universalità e mondialità che è propria del Vangelo e della consegna alla Chiesa per portare tale Vangelo dappertutto e a tutti: “Andate in tutto il mondo…” (Mc 16,15).
Guarigione. È l’oggetto, il fine dell’impegno instancabile dei medici; della speranza di chi è malato e dei suoi cari; della preghiera di tutti i credenti (o quasi: pare che per qualcuno non sia giusto supplicare Dio per la guarigione). I dati ci dovrebbero confortare: si guarisce, e tanti stanno guarendo.
Personalmente confido tanto nell’invocazione, guai a chi me la toglie o me la spegne: “Pietà di me, Signore, sono sfinito; guariscimi, Signore: tremano le mie ossa” (Sal 6,3). E ancora: “Guariscimi, Signore, e guarirò, salvami e sarò salvato, poiché tu sei il mio vanto” (Ger 17,14). 
Governo. “Piove, governo ladro!”. È l’espressione “usata come bonaria parodia degli slogan dei cittadini contro il governo e in generale contro il potere costituito, ladro per definizione e colpevole, a
loro dire, di tutti i mali possibili e quindi anche della pioggia” (così recita Wikipedia). Sta succedendo anche oggi. Per me rimane incomprensibile e ingeneroso questo attacco al governo, ai governi. Non
nego errori, ritardi, impreparazione, confusioni, ingenuità. Ma non posso non riconoscere la portata di una sfida enorme per chiunque e l’impegno reale che ci sta mettendo la maggiore parte dei responsabili dello Stato. Non sono il tipo che ama fare pubblicamente valutazioni politiche contingenti o giudicare governanti e amministratori. Non ne sono in grado e come prete sono convinto che sia più prudente non esporsi dichiarando preferenze di partito o di personalità. Ho ricevuto il patrimonio della Dottrina Sociale della Chiesa e questo cerco di trasmettere laddove interpellato sulle cose della politica. Ho altresì imparato dalla Scrittura la lealtà. “Ricorda loro di essere sottomessi alle autorità che governano, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini.” (Tt 3,1-2); e il dovere della preghiera: “Raccomando dunque, prima di tutto, che si
facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio” (1 Tm 2, 1-2). Vedi anche alla voce Autorità.
H:Lettera muta per la lingua italiana. Ma per la semiotica internazionale
l’acca è simbolo di ospedale.
H = Ospedali. Nessuno vorrebbe andarci. Meno male però che esistono e ci possiamo andare per curarci al massimo delle risorse mediche. Gli ospedali non saranno mai troppi né mai troppo grandi; facendo il verso a Gesù, “i malati li avete sempre con voi” (cf Gv 12,8). Si tratta invece di garantire manutenzione e rinnovamento costanti. Si tratta di non tagliare i finanziamenti necessari (pubblici e privati). Si tratta di mantenerne la vocazione all’ospitalità universale, senza discriminazioni di sorta, in particolare di censo. Ingegnosi anche tutti gli ospedali da campo, soprattutto gestiti dall’abilità dei militari e delle associazioni volontarie. Papa Francesco ebbe modo di utilizzare l’ospedale da campo
come immagine per dire la sua idea di Chiesa e di riforma pastorale e missionaria. Ma, a prescindere, ogni ospedale è per il cristiano una riedizione concreta della famosa e paradigmatica giornata di Gesù a Cafarnao, giunta alle ore vespertine: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni” (Mc 1, 32-34). Hotel. Si stanno moltiplicando nel mondo le decisioni di convertire strutture alberghiere in veri e propri ospedali o in centri di quarantena
rigorosa per contagiati con sintomi lievi. Onore al merito, alla fantasia, alla capacità di adattamento e di trasformazione con cui vorremmo essere più forti di quel virus, di cui temiamo a sua volta la capacità pericolosissima di mutazione. A tal proposito, questa riconversione la vediamo praticata in aziende di abbigliamento (anche griffate e di alta moda) e di meccanica automobilistica (anche di Formula 1) per la produzione di attrezzatura sanitaria che scarseggia drammaticamente, come mascherine protettive e valvole per respiratori. Chapeau. A mio modo di pensare, questa conversione non è eterogenea rispetto a quella conversione spirituale e morale che ci è richiesta dalla Parola
di Dio. Certo qui sono le menti e i cuori a dover cambiare. Ma sono proprio le menti e i cuori sanati quelli che sanno essere creativi e trasformativi nel lavoro e nella concretezza del quotidiano.
I: Isolamento. Detto anche “autoisolamento” quando riferito a un atto libero di responsabilità civile, sebbene per indicazione delle autorità sanitarie e di governo. Il fine è sempre quello di contenere il rischio del contagio. Questa pratica comporta un rischio e necessita un antidoto. Il rischio è la solitudine, l’antidoto è la con-solazione. Uno dei tanti slogan o hashtag di questi giorni è “Isolati sì, ma non soli” (altra versione: “distanti, ma sempre vicini”; e similari). Occorre attenzionare parecchio lo stato esteriore di isolamento: utilizzare tutta la fantasia e i mezzi perché non si favorisca la solitudine come status interiore, soprattutto per quelle psicologie già segnate da questa prova subita o da questa tentazione falsamente allettante. Può bastare una chiamata o videochiamata, nei tempi giusti e con lo stile del “è permesso?”, non dell’invadenza. C’è poi l’arte della consolazione. Ce lo insegnava Benedetto XVI: “La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine” (Spe salvi, n. 38). Rileggiamo l’inno alla consolazione di San Paolo: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (2 Cor 1, 3-4).
Incertezza. La percepiamo tutti. E ci devasta. Devasta l’intelligenza, perché non capiamo e non si fanno capire neanche coloro che dovrebbero spiegarci le cose come stanno realmente. Devasta il sistema emotivo, perché destabilizza gli equilibri già di per sé complessi che operano in noi (rimando – per intenderci – al film di animazione Iside out, e alla sua brigata di Gioia, Rabbia, Disgusto, Tristezza, Paura). Non c’è chiarezza; non c’è stabilità. Anche nella fede l’incertezza è un ostacolo forse mai superato definitivamente: “Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente” (Gv 10,24). Per come sono fatto, io ho sempre nostalgia delle “idee chiare e distinte” di Cartesio; e sogno un mondo ordinato e sicuro. Ma so che la realtà non è filosofia né sogno. Invoco tuttavia un maggiore contributo di tutti a non peggiorare la situazione per non precipitare nel caos. Fin dal principio l’opera creatrice di Dio ha sconfitto il mitico “tohû” e
“bohû”, l’indistinto e il vuoto, l’informe e il deserto (cf Gen 1,2). Non distruggiamo l’opera di Dio.
Incubo e Incubazione. Teniamo insieme queste due parole, per ragioni linguistiche ma anche esistenziali. Dal latino in- = sopra e cubare = giacere: anticamente si pensava a uno spirito maligno che posandosi sul dormiente gli provocava sogni spaventosi e quindi affanno e apprensione. Ecco gli incubi. La stessa operazione la realizza un virus, anche lui ente maligno, il quale, una volta entrato nel nostro corpo per contagio, sta sopra come sospeso, fino al momento in cui manifesta la sua virulenza e può arrivare a sopprimere le difese immunitarie. Ecco l’incubazione, il periodo che intercorre tra contagio e comparsa dei sintomi. Abbiamo paura del Copvid-19, è diventato per alcuni un vero incubo che ci fa fare incubi di notte. E una delle cose che ci spaventa è non sapere con precisione come funziona e quanto dura la sua incubazione. Per cui rimaniamo costantemente agitati e non sappiamo come comportarci al di là delle regole basilari. Ma … sorpresa… Incubazione è anche termine che rimanda alla vita nascente, come il parente stretto incubatrice. Nel mondo animale, per gli ovipari l’incubazione ha a che fare con la covata, cioè indica il tempo necessario perché dall’uovo si formi la nuova creatura. Nel mondo umano l’incubatrice è la macchina che custodisce e protegge i nati prematuri perché possano sopravvivere e entrare nel mondo. Allora è vero che anche giocando con le parole c’è “una speranza contro ogni speranza” (Rem 4,18). Avremmo bisogno del suono melodioso di una cetra, come quella che il giovane Davide suonava per scacciare lo spirito cattivo che turbava il re Saul (cf 1 Sam 16,23).
Immunità di gregge. “(O immunità di gruppo, o di branco): l’espressione indica quel fenomeno per cui, una volta raggiunto il livello di copertura vaccinale o di immunità, considerato sufficiente all’interno di una popolazione, si possono considerare al sicuro anche le persone che non sono vaccinate o che non hanno ancora contratto il virus” (**). Non so pronunciarmi sulla validità dell’ipotesi più volte sostenuta e immancabilmente demolita dai diversi esperti o pseudo tali. Qui vado subito alla suggestione biblica: “Il Signore è il mio pastore…anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (Sal 22, 1.4). E Gesù ha garantito che conosce il suo gregge e per lui dà la vita (cf Gv 10). Alla fine di tutto, altra immunità non ci serve. O meglio: auspichiamo che presto la popolazione mondiale possa nella sua stragrande maggioranza sviluppare naturalmente o artificialmente, in modo attivo o passivo, questa resistenza organica all’antigene virale; ma intanto non smarriamo la strada che ci conduce all’ovile del Buon e Bel Pastore che nulla ci fa mancare.
Infermieri. Vedi alla voce Eroe. E comunque bravi, grazie per sempre!
Infodemia. Questa la imparo da Silvia. “È una parola nuova, ma è meno allegra di “petaloso”. L’epidemia di informazione/i avrebbe dovuto rendere tutti più consapevoli. Non è stato del tutto così e se all’inizio ci siamo sentiti invasi dagli allarmi che creano angosce, ora ci rendiamo conto che essere informati e sapere quello che accade, come ci si deve comportare, è fondamentale (*). Si toccano temi cui abbiamo già accennato: allarme, angoscia, incertezza. L’informazione – sempre, ma in questa emergenza è evidente – è ambivalente. È utile e necessaria, se ben fatta, competente, veritiera e neutra; serve per sapere cosa succede e cosa si può o si deve fare. È inutile e nociva, se approssimativa, ingenua e credulona, alla ricerca della sensazione e dello shock, a costo di ingenerare comportamenti dissennati (come puntualmente è accaduto nella storia di questa disavventura). Senza togliere nulla al diritto democratico alla libertà di pensiero, di parole e di informazione, ci sono congiunture dove forse è meglio che alcune notizie siano date da poche certificate voci: l’Organizzazione Mondiale della Sanità; l’Istituto Superiore della Sanità; il Presidente e i Ministri del governo; personalità scientifiche e culturali che abbiano competenza diretta in materia. Poi per carità, c’è spazio per il dibattito, il confronto, gli aneddoti, le “storie in diretta”, ecc. Ma occorre imparare a calibrare domanda e offerta informative. Dice il Siracide: “chi esagera nel parlare si renderà riprovevole, chi vuole imporsi a tutti i costi sarà detestato… un discorso inopportuno è come un
racconto inopportuno: è sempre sulla bocca dei maleducati” (Sir 20,8.19).
L: Lavarsi. In particolare, lavarsi le mani. Claudia è precisa: “l’atto di lavarsi le mani, segno di igiene e buone maniere (impartito da mamme, zie, nonne e maestre prima di sedersi a tavola) e che risuonava così “passato”, diventa più che mai attuale. Le mani sono le prime protagoniste della prevenzione al virus. Nel modo di comunicare vivace degli italiani continuano, per fortuna, ad agitarsi liberamente dalle finestre e dai balconi. Tra le misure di prevenzione però si chiede di evitare strette di mano e si invita a lavaggi frequenti” (**). E sul tema mani, stimolante il contributo di Silvia: “Iscritte di segni (“triangoli, rami, croci, stelle, tutta la vita ch’è stata e sarà”) per Sibilla Aleramo; che “saranno persiane rigate di sole”, secondo Vittorio Sereni (“queste tue mani a difesa di te: mi fanno sera sul viso”). Le mani sono (erano) un formidabile strumento di comunicazione. Basta pensare ai modi di dire: “dammi una mano”, “sono nelle tue mani”, “tendere una mano”… Le più azzeccate sono ora le varianti di “lavarsene le mani” (comportamento di quelli che invece non se le lavano) e starsene con le mani in mano. Di certo la rivoluzione più rilevante è non darsi più la
mano” (*). A me rimane solo da offrire la suggestione biblica di questo tema. La riscoperta fondamentale è quella di essere tutti (con mani lavate bene o meno) nelle mani sicure di Gesù e quindi nelle mani amorevoli del Padre (“Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e
nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”: Gv 10, 28-29). Sfogliando l’Antico Testamento trovo intrigante il lavaggio delle mani come prescrizione sacerdotale capace di salvaguardare la vita: “si laveranno le mani e i piedi e non moriranno. È una prescrizione rituale perenne per Aronne e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni” (Es 30,21). Sfogliando il Nuovo Testamento è facile evocare due momenti precisi della narrazione evangelica. Il primo (cf Mc 7, 1-13) è l’accusa rivolta a Gesù circa la cattiva abitudine e il reato (per la legge mosaica) dei suoi discepoli, i quali non si lavano le mani prima di assumere cibo a tavola. Non abbiamo dati circa la veridicità dell’accusa: sta di fatto che Gesù non smentisce né giustifica la prassi discutibile dei suoi. Gesù va più a fondo e ribalta la
questione, accusando i suoi interlocutori: essi rispettano la norma igienico-rituale (lavandosi “accuratamente” le mani, e anche “bicchieri, stoviglie, oggetti di rame e letti” soprattutto dopo essersi esposti alla vita sociale affollata, come la frequentazione del “mercato”); ma lo fanno a scapito di trasgressioni ben più gravi, che concernono “il comandamento” e “la parola di Dio”, e quindi non la pulizia esteriore ma la purezza del cuore, delle intenzioni, delle relazioni. Tornando all’oggi, sanitariamente è importante lavarsi bene le mani, ma non basta questa attenzione se non è legata a uno stile complessivo di vita che garantisca la salute appunto complessiva della persona. Il secondo è il famigerato gesto del governatore Pilato (cf. Mt 27,24): si lavò in maniera plateale le mani, per dichiarare preventivamente di non volersele sporcare del sangue di Gesù condannato a morte. Gesto in realtà ipocrita, perché la responsabilità un governatore non avrebbe potuta alienarsela ell’esercizio pieno delle sue funzioni, a prescindere dell’opinione personale priva di effetti giuridici. Lampante il contrasto assoluto: quel drammatico giorno, un lavaggio di mani come segno di irresponsabilità; oggi, un lavaggio di mani come segno reale di responsabilità. Senza aprire ora nel dettaglio l’argomento del lavaggio dei piedi – Gesù che si lascia lavare i piedi dalle donne (cf Lc 7,38; Gv 12,3) e Gesù che
lava i piedi dei suoi amici (Gv 13, 1-17) – e nemmeno il precetto di lavarsi la faccia e profumarsi il capo soprattutto nei momenti ascetici della nostra vita (cf Mt 6, 17-18), rimanga chiaro che nella prassi di pulirsi, lavarsi, profumarsi il corpo c’è una cura per sé e per gli altri che ha sempre il sapore del Vangelo.
Libri. Scrivendo a Timoteo Paolo, che – come abbiamo già segnalato – si sente solo (“Cerca di venire presto da me”), fa una richiesta molto precisa “Venendo, portami il mantello, che ho lasciato a Tròade in casa di Carpo, e i libri, soprattutto le pergamene” (2 Tm 4,13). Amo tantissimo questo versetto, perché amo tantissimo i libri e non potrei farne a meno. In queste settimane sono una risorsa ancora più necessaria per usare al meglio il tanto tempo “libero” (o “costretto”?). E non potete
immaginare la soddisfazione per un compratore di libri compulsivo come me, avere finalmente ragione: occorre sempre avere una buona scorta, per ogni evenienza … anche se i libri acquistati e non ancora letti superano ogni previsione di lettura a medio termine. Confesso che tra le tante privazioni, per me pesa l’impossibilità di entrare in una libreria e godere tanta bellezza. Certo la Scrittura (che tra l’altro è un libro di libri – che meraviglia che il rapporto con Dio abbia, tra le altre, questa forma concreta e sublime insieme!) ci chiede anche qui di essere moderati: “Ancora un
avvertimento, figlio mio: non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo” (Qo 12,12). Lo ribadisco: tutto questo gioco è alla fin fine un invito a leggere i libri
sacri: c’è davvero tutto!
M: Siamo alla lettera che accumuna i termini più ovvi – ahinoi – per il nostro gioco Covid-19: Malattia e Morte. E anche Medicina, che in questo frangente è salita sul podio delle arti e delle scienze, pur con tutti i suoi limiti. Temi troppo ampi per solo tentare l’approccio semi-ludico che stiamo perseguendo in queste pagine. Lascio solo spazio alla promessa di Gesù e allo sberleffo di san Paolo. “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio” (Gv 11,4): in questa promessa, seppur apparentemente smentita dal morire dell’amico, ma poi riconfermata dal segno della sua risurrezione, io confido, tenacemente. “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,55): ci vuole fede e coraggio a prendere in giro la morte, ma la luce
della Pasqua ci autorizza e ci sostiene. Scegliamo altre parole di spessore inferiore, ma ricche di stimoli.
Mascherina. Per sineddoche (= la parte per il tutto) intendiamo i Dispositivi di protezione: “riassumiamo con questo termine tutto ciò che può tutelare l’uomo dal contagio, in primis, guanti e mascherine. Sono divenuti introvabili da un giorno all’altro. Indispensabili per il personale medico e paramedico, le mascherine sono diventate il simbolo della lotta che ogni giorno si conduce nei reparti degli ospedali, a tutela dei lavoratori e dei pazienti. Le immagini di bambini, uomini e donne con il naso e la bocca coperti saranno tra quelle che, probabilmente, resteranno nella memoria collettiva di questa vicenda” (**). Le mascherine sono diventate anche l’oggetto del contendere (si direbbe: una cosa da ridere, se non ci fosse da piangere) tra imposizioni amministrative e oggettiva mancanza della materia, tra impennata vertiginosa e vergognosa dei prezzi on line e dovere civile di una distribuzione gratuita a carico dello Stato. Andando più in profondità su questo tema, prendo a prestito le parole
di un mio collega ben più illustre, noto teologo e liturgista, Andrea Grillo: “la semplice mascherina, nascondendo il volto, cambia il modo di incontrarsi, di guardarsi, di salutarsi: anzi portando in sé le tracce inconsce del mascheramento, alza il livello della inquietudine, fino a sospendere il saluto addirittura. La mascherina, che è di sicurezza, si mostra anche come minaccia, con la mascherina ci si protegge, ma non ci si riconosce. Questo fa soffrire tutti, sia il corpo civile, sia il corpo ecclesiale.”
La raccomandazione è quella di non approfittarsi dell’uso della mascherina per diventare persone che si nascondono, che perdono limpidità e trasparenza, che si rinchiudono in se stesse con un
involucro impermeabile alle relazioni e agli affetti, o che ingannano il prossimo con l’alibi del “tanto non mi riconoscono”. Nell’antichità le maschere erano prerogative degli attori di teatro, che le utilizzavano non solo per rappresentare i personaggi spesso mitologici di tragedie e commedie, ma anche per rendersi visibili a distanza e – pare – per amplificare la voce. Questi attori si chiamavano
“ipocriti”, simulatori, appunto perché nascosti sotto (in greco ypo-) una maschera. Gesù ha smascherato sempre l’ipocrisia. Anche se con la mascherina protettiva, cerchiamo di non diventare mai degli ipocriti. Migliore. Gira sulla rete, in varie grafiche e senza firma, una freddura che trovo azzeccata: “dopo dicono che sarà tutto diverso e le persone saranno migliori. Ma è una pandemia mica un incantesimo”. Non posso che controfirmare. Credo sia bello sognare e pure impegnarsi fattivamente per diventare persone migliori e per migliorare questo mondo che ci è stato affidato
da custodire e coltivare. E credo sia importante in questi frangenti dolorosi immaginare che ne valga la pena, che ci sia un guadagno commisurato al prezzo alto che si sta pagando. Giusto anche dirlo,
dichiaralo come forma di sostegno e di infusione di fiducia. Attenti però alla retorica facile. Nulla è automatico. Si può migliorare, ma anche tornare uguali (come se nulla fosse accaduto, semplicemente
risvegliati dopo un brutto sogno o rientrati da una vacanza poco riuscita) o anche peggiorare (più incattiviti, più egoisti, più scettici o cinici sulla vita). Piuttosto c’è da aggiungere che forse archivieremo per sempre la frase “un tempo, ieri, negli anni passati si stava meglio” usata per criticare a ogni piè sospinto il nostro presente. “Non dire: «Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?», perché una domanda simile non è ispirata a saggezza” (Qo 7,10). Comunque, senza cedere alla suddetta retorica, sarebbe bello superata l’emergenza sentirci rivolgere parole simili a queste: “Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio e la costanza e so che le tue ultime
opere sono migliori delle prime” (Ap 2,19).
N: Numeri. Vedi alla voce Bollettino. È diventato un triste rito, all’ora del vespro. Quanti tamponi, quanti contagiati, quanti ricoverati, quanti in terapia intensiva, quanti guariti, quanti dimessi, quanti deceduti. Al giorno e i totali dall’inizio del dramma. Per poi imbatterci nel “numero sconosciuto”, ma a detta di tutti il più alto di tutti: i contagiati asintomatici e i guariti senza sapere di essere stai malati.
E non è finita. Prima in modo insinuante, dopo in modo ufficiale, partono inchieste e si fanno dichiarazioni che dicono che i numeri non sono veri; il conteggio è falsato; sono di più!! Ed ecco ancora il circolo vizioso della disinformazione, dell’allarmismo, dell’incertezza. Come ho sempre sostenuto, a differenza di una certa opinione diffusa, i numeri e le misure contano. Ma non salvano.
Nella Bibbia abbiamo anche un libro che si intitola ai “Numeri”, quelli del censimento del popolo di Israele ai tempi dell’esodo. Ma la stessa Bibbia (cf 2 Sam 24) ci racconta una strana vicenda di censimento al tempo del re Davide, un censimento che sembra un ordine divino e che
invece viene considerato da Dio un peccato. Un racconto che ci mette in guardia su una volontà di contarsi che alla fine è contraria al bene, anzi produrrà poi una pestilenza (che paradosso, se pensiamo al nostro misurare proprio una pandemia!)
Normalità. Nella stessa lunghezza d’onda del tema Migliori. C’è una battuta che amo molto, in un film intelligente, divertente: Mine vaganti di Ferzan Özpetek. Già vedo qualche lettore che magari si agita nel trovare citato questo autore in un pamphlet pretesco pieno di citazioni bibliche. Rimani sereno, caro lettore! Ci sono cose belle e sagge quasi dappertutto, basta saperle trovare (“omnia munda mundis”, ecc.). La battuta la pronuncia il personaggio più anziano, la nonna di Antonio e
Tommaso, due fratelli alle prese con il coming out in famiglia circa la loro omosessualità. Questa donna nella sua vita era stata chiamata appunto “una mina vagante” e per tutta questa vita porterà nel cuore le ferite insopportabili di un amore impossibile, uno di quelli “che non finiscono mai, sono quelli che durano per sempre”. Quasi di volata – si sta infatti allontanando e uscendo di scena – la sentiamo replicare: “Normalità, che brutta parola!”. Si capisce che sotto sta la questione delicata (socialmente, culturalmente e – per i cristiani – anche teologicamente e pastoralmente) dell’omosessualità e della sua doverosa (per alcuni) e dannosa (per altri) “normalizzazione”, dopo
secoli di pregiudizio e di discriminazioni sotto l’etichetta di “anormali” (la meno volgare, ma forse la più spietata). Ho divagato ancora, ma meritava un cenno tutto questo. Tornando al Covid-19 e a tutti i suoi danni, il tema della normalità è tornato in voga: vogliamo tornare alla vita normale. Molto bene. Vero. Comprensibile e condivisibile. Ma ci si chiede mai cosa è la vita normale? Chi lo stabilisce? Si direbbe una norma. Ma chi detta la norma? Chi dice che le prassi, le abitudini, i tempi e le scadenze, gli appuntamenti fissati e le tradizioni, i gusti e le mode, i bisogni e le voglie, le opinioni e i giudizi ... tutto questo, così come e perché si è stabilizzato, sia più normale di altri stili e altre scelte che potrebbero cambiare la vita della gente? Attenzione: non entro nel merito della questione sui principi morali assoluti e perenni o sulla legge morale (legge eterna, legge naturale, legge divina, legge umana). Troppo complicato da farsi in sé, figurarsi nel limite di questi appunti disordinati. Solo un’intuizione. Anche sul tema dell’inno alla normalità e del ritorno alla normalità, attenti alla retorica vuota e al rischio di confondere il “normale” con l’ambiguo e mortificante “è sempre stato così, si è sempre fatto così”. Solo per farci due risate, ma con sincero rispetto e ammirazione per il genere femminile, nell’ ultima traduzione CEI della Bibbia, l’aggettivo “normale” – salvo errore – ricorre solo una volta, in riferimento alle mestruazioni della donna, come parametro di valutazione del flusso di sangue e della conseguente impurità della donna (cf Lv 15,15). Stesso difetto io lo leggo in ambito pastorale, laddove vedo o leggo di preti e collaboratori pastorali, i quali non tanto aspettano il ritorno alla presunta “normalità”, ma continuano ad agire “normalmente”, come se non fossimo in stato di straordinarietà, facendo ostinatamente la pastorale “normale”, di sempre, solo con qualche piccolo aggiustamento e non accorgendosi che la gente è altrove. Questi soggetti nemmeno sembrano chiedersi se non sia la volta buona per mettere in pausa tante iniziative, per verificarne l’effettiva sensatezza per la Chiesa del terzo millennio.
O: Ondata di ritorno. “Come in uno tsunami, il termine “ondata di ritorno” a significare la possibilità di un ritorno di propagazione del virus all’interno di quelle aree che stanno registrando numeri in calo o addirittura “zero contagi”. L’entusiasmo di un possibile trionfo in questa battaglia è da tenere sotto controllo” (**). Non aggiungo molto di più. Solo il concetto e la possibilità che insinua mi fa venire la pelle d’oca, per i brividi. Però c’è un monito ragionevole: non siamo mai al sicuro nel travaglio di questo mondo; ci vuole sempre prudenza, discernimento, cura di sé e dell’altro.
Gli stessi brividi mi vengono ogni volta che leggo questo stesso monito nelle parole non proprio rassicuranti di Gesù: “Quando lo spirito impuro esce dall'uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l'ultima condizione di quell'uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà
anche a questa generazione malvagia” (Mt 12, 43-45).
Operatore. Parola basica di vastissima applicazione. Vale nel nostro gioco in riferimento particolare a tutte le già menzionate sigle (oss, osa, ota, ecc.) che riguardano il personale delle strutture sanitarie e assistenziali. Vedi alla voce Eroe. Compresi gli addetti alle cucine e alle pulizie. Eroi umili e – quando non lavativi – degni di onore. “Una riconoscenza che spesso passa inosservata” (**). Ma operatore è di per sé ogni altro onesto lavoratore, soprattutto quelli che in questa emergenza sono chiamati a essere a servizio dei cittadini: operatori nei supermercati, operatori nelle farmacie, operatori nelle banche, operatori dei mass media, operatori nelle agenzie funebri e dei cimiteri, operatori nei trasporti pubblici, e così via. Brava gente, forte e – quando non lavativi – degni di onore. A tutti dedico l’“avete fatto a me” della parabola di Gesù sul giudizio finale (cf Mt 25,40).
P: Pandemia. Vedi alla voce Epidemia, la cugina meno cattiva. “Composta da pan e demos, alla lettera significherebbe (e non vi sfuggirà la triste ironia) riunione di tutta la popolazione. E poi è
diventata “malattia che colpisce tutta la popolazione”. Non una epidemia, ma un’epidemia globale: non credevamo che nel terzo Millennio potesse succedere. E invece ogni giorno è più pandemico del
precedente” (*) Poco da aggiungere alla sagacia di Silvia. Se non la solita, ripetuta invocazione – in cui io credo ancora e che recito volentieri: “Ferma, o Signore, la pandemia! Liberaci e salvaci!”.
Pipistrello. Copio e incollo (con qualche taglio) dal sito dell’Istituto Superiore di Sanità. È una citazione lunga. Ma non saprei come riassumerla. E non ho compreso bene tutti i passaggi (d’altronde io ho fatto il liceo classico!). Chi non ha curiosità scientifiche salti pure. A me fa impressione tutto ciò. “Il nuovo coronavirus 2019-nCoV, che l’OMS ha deciso di chiamare SARS-CoV2, isolato nell’uomo per la prima volta alla fine del 2019, dalle analisi genetiche e dai confronti con le sequenze di altri coronavirus da diverse specie animali sembra essere originato da pipistrelli. In particolare due coronavirus dei pipistrelli condividono l'88% della sequenza genetica con quella del SARS-CoV2 (rispetto ad altri due coronavirus noti per infettare le persone - SARS e MERS - SARS-CoV2 condivide circa il 79% della sua sequenza genetica con SARS e il 50% con MERS). Come per SARS-CoV e MERS-CoV, si ipotizza che la trasmissione non sia avvenuta direttamente da
pipistrelli all’uomo, ma che vi sia un altro animale ancora da identificare che ha agito come una specie di trampolino di lancio per trasmettere il virus all'uomo. Si è ipotizzato che questo ruolo lo abbiano avuto alcune specie di serpenti, frequentemente venduti nei mercati di animali vivi, ma lo studio scientifico che ha proposto quest’ipotesi ha utilizzato un metodo indiretto per dimostrarla, non comparando isolati di virus dai serpenti, dai pipistrelli e dall’uomo, ed alcuni esperti hanno criticato lo studio, affermando che non è chiaro se i coronavirus possono infettare i serpenti. Anche una ricerca che ha indicato il pangolino come probabile serbatoio per il SARS-CoV2 è in attesa di conferme.[…] Dal punto di vista molecolare, gli aspetti che consentono ai coronavirus di infettare diverse specie animali e l’uomo possono dipendere da: 1) Modifiche e mutazioni nella proteina superficiale del
virus che funge da recettore (le punte o “spike” del virus) e favorisce l’attacco del virus ai recettori delle cellule del nuovo ospite ed il suo ingresso nella cellula per replicarsi. 2) Possibilità di ingresso nella cellula indipendente dal legame tra proteina virale e recettore come via alternativa per la trasmissione tra le diverse specie animali e l’uomo. Studi del genoma e della biologia dei coronavirus (CoV), in particolare di SARS-CoV, hanno evidenziato frequenti passaggi a diversi ospiti, sia
passaggi da animali all’uomo (zoonosi), da uomo ad animali (zoonosi inversa) o da una specie animale ad un’altra specie animale diversa”. (www.iss.it). Fa o no impressione? Che io sappia, i pipistrelli li abbiamo sempre odiati tutti, almeno alle nostre latitudini: topi con le ali, fastidiosi
soprattutto al buio. Guardando le loro sembianze il mito ha plasmato la leggenda nera dei “vampiri” assetati del nostro sangue. Detto fuori dai denti: che schifo! Qualcuno ha tentato di recuperarli in simpatia per il fatto che sarebbero ottimi predatori delle zanzare e quindi più salutari ed ecologici degli insetticidi chimici. Comunque sia, questa del Covid-19 non gliela perdoneremo mai! Con buona pace di Batman, l’uomo pipistrello che pure ci piace tanto, ma come eroe e salvatore di Gotham City, non agente di morte. Non mi sottraggo al mio stile di gioco. Nella Bibbia ci sono i pipistrelli? Sì.
Per due volte – all’interno della precettistica minuziosa della Torà – sono associati a una lunga serie di volatili etichettati come “obbrobriosi” e quindi vietati da mangiare, il che sarebbe un “obbrobrio” ulteriore (cf Lv 11, 13-19; Dt 14, 11-18). Ok, è confermato: i pipistrelli fanno schifo. Li ritroviamo poi nella polemica anti-idolatrica dei profeti, laddove si invita a (ri)gettare gli idoli d’oro e d’argento “ai topi e ai pipistrelli” (Is 2,20) o laddove si dà come prova della loro inconsistenza e vanità il
fatto che “sul loro corpo e sulla testa si posano pipistrelli, rondini, gli uccelli, come anche i gatti” (Bar 6,21).
Positivo. Non è una novità di questa emergenza. Da persone preoccupate della nostra salute e potenzialmente pazienti, ogni volta che ritiriamo gli esiti di un’analisi medica abbiamo il terrore di trovare la dizione: positivo. Che solitamente vuol dire che abbiamo una malattia, o un suo fattore. Nobile e stupenda eccezione: il test di gravidanza, dove la positività dovrebbe sempre portare a fare i salti di gioia (maternità e paternità responsabili permettendo). Eppure quante volte, in tutti gli altri ambiti, siamo sollecitati a “essere positivi”, a “pensare positivo”: qui il termine è sinonimo di ottimismo, fiducia, speranza, serenità. Siamo all’ossimoro: “penso positivo, spero di essere negativo”. “Come posso non essere negativo, se sono positivo?”. Che vitaccia! Non sto adesso a sprecare parole sul fatto che l’intera Bibbia è alla fine un grande e unico invito alla fiducia (= fede in Dio) e alla speranza (= nella vita eterna). Questa positività le batte tutte. Picco. Simpatica Silvia: “Per noi che di diagrammi ne sappiamo molto, la parola picco era per lo più associata alle montagne aguzze. Ora è la
più tristemente anelata, la più pronunciata di certo: una volta superato il picco dei contagi, forse si comincerà a vedere una luce in fondo al tunnel” (*). Si tratta, in un diagramma e nei fatti corrispondenti, del valore massimo raggiunto da una grandezza variabile. Abbiamo anche scoperto che il picco non ha la forma del picco (la cima di un monte) – sarebbe stato troppo bello – ma dell’altopiano, il Plateau – tanto per toglierci le illusioni che si possa discendere presto la china
del contagio. Se ho capito bene questo plateau sarebbe una sorta di stabilizzazione, per un tot di giorni, dei numeri più alti, del valore massimo. Mentre scrivo, forse ci siamo. Forse. Ma quell’Ondata di ritorno di cui parlavamo sopra, non lascia tranquillo nessuno. Nella mia testa “picco” mi richiama il termine “pinnacolo”. Nessun nesso lessicale, ma uno morfologico: il pinnacolo è una guglia a forma di piramide o di cono, per esempio nelle architetture gotiche; e per estensione indica anch’esso la cima di una montagna, quando sottile. Mi sovviene il racconto delle tentazioni di Gesù. Nella versione CEI della Bibbia 1974, che ha accompagnato la mia crescita, nel racconto della seconda tentazione si diceva così: “Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù…»” (Mt 4,5). Nella versione corrente leggiamo “sul punto più alto del tempio”: ecco il picco/pinnacolo. Cosa possiamo imparare dal fatto che Gesù non accetta ovviamente la proposta del Diavolo? Che da un picco non ci si getta giù così, di botto, perché tanto ci pensano gli angeli. Anche raggiunto il picco, la discesa sarà lenta e
chiederà prudenza. Rispondeva Gesù a Satana “non metterai alla prova il Signore Dio tuo” (Mt 4,7). Non sfidiamo nemmeno il virus e la sorte. Keep calm, come si usa dire oggi. 
Paura e Panico. Sorellastre di Ansia e Angoscia, cui si rimanda. Qui accolgo la carta giocata da Claudia che ci descrive molto accuratamente il Panic shopping. “In molti Paesi del mondo è stata la reazione più immediata e compulsiva della collettività all’uscita delle prime restrizioni emanate dai Governi a causa della pandemia. La paura della chiusura totale delle attività, o – più banalmente – l’incapacità di “non poter fare a meno di qualcosa” (che non fosse davvero così necessario)
ha visto riversarsi un considerevole numero di persone nei supermercati. Nei casi peggiori, lunghe code di persone tenute – o, verrebbe da dire, trattenute – a debita distanza dai commessi, per entrare con ordine nei negozi e uscirne con i carrelli pieni di scorte di ogni genere. Nelle migliori delle ipotesi, lunghe code umane, rispettose, silenziose, munite di mascherine, hanno aspettato ore il proprio turno per fare la spesa; nei casi più deplorevoli c’è anche chi si è recato al supermercato per semplice passatempo. L’effetto del “panic shopping” si può riassumere nell’immagine degli scaffali vuoti e in quelle dei grandi container alimentari, posti al centro delle corsie, ancora sulle pedane di legno, ancora da sballare e, tuttavia, già vuoti” (**). Descrizione esauriente e da panico, se posso fare facile umorismo. Niente funziona di più, come anti – panic shopping, delle parole di Gesù nella famosa pagina intitolata dai commentatori “abbandono alla Provvidenza”: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la
vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? […] Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6, 25.34).
La spesa va fatta, e il governo lo sa bene, mantenendo aperti i supermercati. Ma la confidenza non ingenua, bensì collaborativa con la Provvidenza di Dio ci aiuta a fare tutto in modo misurato e solidale. Vedi anche alla voce Supermercato.
Protezione. Parola più volte evocata nel nostro gioco. Abbiamo bisogno di protezioni per non essere contagiati e non contagiare. Tre declinazioni più specifiche. I Dispositivi di Protezione: vedi alla voce Mascherine. La Zona protetta: vedi alla voce Zona. Il Dipartimento della Protezione Civile: “è la struttura della Presidenza del Consiglio dei Ministri preposta al coordinamento delle politiche e delle attività in tema di difesa e protezione civile” (**). Senza abusare del concetto di eroismo, conosciamo bene l’azione competente e formidabile dei professionisti e dei volontari dì questa realtà governativa. In tante circostanze, molto critiche o anche semplicemente organizzative della vita pubblica dei nostri territori. La protezione è una realtà direi intrinseca alla nostra fede in Dio, così come essa è nutrita dall’ascolto della Parola. Nei Salmi è una delle invocazioni più ricorrenti: “Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio” (Sal 16,1). Commovente pensare, proprio quando “la peste vaga nelle tenebre”, al
coinvolgimento degli angeli: “Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Sulle mani essi ti porteranno” (Sal 91, 6.11- 12). Custodia e protezione coincidono nel linguaggio biblico. Dice il Siracide: “Gli occhi del Signore sono su quelli che lo amano; egli è protezione potente e sostegno vigoroso, riparo dal vento infuocato e dal sole meridiano, difesa contro gli ostacoli, soccorso nella caduta” (Sir 34,19).
Q: In “nomi, cose, città, animali” la lettera Q è sempre una sfida nella sfida. Ma qui c’è una parola che può aspirare benissimo alla pole position. E infatti le mie due compagne di gioco convergono sul tema. Quarantena. Così Claudia. “È il periodo di isolamento forzato richiesto per limitare la diffusione del virus. La sua durata differisce in base al periodo di incubazione delle malattie di cui si cerca di evitare il contagio. Il suo nome trae origine dai quaranta giorni di isolamento che dovevano essere rispettati da quanti arrivavano dai paesi colpiti dalla peste nel XIV secolo” (**). Silvia ci dà più dettagli storici, gustosi: “Un paio di settimane fa il professor Franco Cardini ha spiegato ai lettori
del Fatto che nell’Europa cristiana l’epoca delle grandi epidemie va dalla metà del Trecento alla metà del Seicento. Il picco fu tra il 1347, quando arrivò la yersinia pestis a Messina con le navi genovesi che portavano il grano dal mar Nero, e il 1351-52. Da un articolo del Corriere abbiamo appreso dell’esistenza di un documento del 1377 (custodito negli Archivi di Dubrovnik, oggi in Croazia, all’epoca veneziana), dove si ordina che prima di entrare nella città, i nuovi arrivati dovessero
trascorrere 30 giorni in un luogo ad accesso limitato fuori dalla rada in attesa di vedere se i sintomi della peste si fossero sviluppati. In seguito, l’isolamento fu prolungato a 40 giorni. Di qui, la quarantena. Nel 1347 (ante picco) Venezia contava 120.000 abitanti, che furono decimati di
tre quinti in diciotto mesi di peste” (*). Il passaggio alla Scrittura è inevitabile e rigoroso. Il numero 40 attraversa tutti e due i Testamenti. I 40 giorni e le 40 notti del diluvio (Genesi); i 40 giorni e le 40 notti di Mosè sul monte Sinai prima di ricevere le Tavole della Legge (Esodo); i 40 anni del popolo di Israele nel deserto, dopo la liberazione dall’Egitto e prima dell’ingresso nella terra della promessa (Numeri); i 40 giorni della sfida di Golia agli Israeliti prima dell’arrivo e della vittoria di Davide (1 Samuele); i 40 giorni e le 40 notti del profeta Elia, nel deserto con la forza del solo pane dato da
Dio, prima di giungere al monte Oreb (1 Re); i 40 giorni concessi agli abitanti di Ninive per la conversione, che avviene grazie alla predicazione del profeta Giona e attraverso il digiuno (Giona); i 40 giorni di vita del neonato Gesù prima di “presentarsi” e prendere possesso di casa sua, il Tempio di Dio (Lc 2); i 40 giorni e 40 notti di Gesù nel deserto, tentato dal Diavolo (Mt 4); infine i 40 giorni passati a farsi vedere risorto e vivo ad alcuni testimoni prescelti, prima di salire al Cielo (At 1).
Cosa accomuna tutti questi episodi? La quarantina è un tempo di prova, per un singolo o per il popolo, e questa prova serve a saggiare la fede e sostenere la conversione, da un lato, e a manifestare che solo in Dio c’è salvezza, dall’altro. Credo non ci sia spiritualità migliore anche per la quarantena sanitaria (tra l’altro sembrerebbero bastare 15 giorni, ma non è poi tanto sicuro nemmeno questo).
Quando. Uno degli interrogativi più assillanti. Quando è incominciata davvero la diffusione del virus? Quando finirà il rigore del “tutti a casa”, “tutto chiuso”? Quando avrà termine la pandemia? Quando scomparirà il coronavirus? (se poi scomparirà…). Tutte domande che riecheggiano il biblico: “fino a quando?”. Rivolto a Dio: “Trema tutta l'anima mia. Ma tu, Signore, fino a quando?” (Sal 6,4). Rivolto a me stesso: “Fino a quando nell'anima mia addenserò pensieri, tristezza nel mio cuore tutto il giorno? (Sal 13,3). Rivolto al nostro nemico: “Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico?” (ivi).
R: Respiro e respiratori. Il primo: l’atto più naturale e vitale dell’essere umano. Siamo stati creati con un atto di insufflazione di respiro. Veniamo al mondo uscendo dal grembo materno e iniziando a respirare con il primo vagito. Moriremo con l’emissione dell’ultimo respiro; e ogni istante della nostra esistenza è scandito dal ritmo per lo più regolare del nostro respiro. I secondi: macchine, artifici del genio umano inventati e utilizzati per sostenere ciò che un corpo malato non riesce più a fare da solo. Abbiamo imparato in questi giorni che esistono diversi dispositivi medici che a vario livello – più o meno intensivo – coadiuvano il nostro respirare. Detto in modo profano: semplici
ossigenatori o erogatori di ossigeno; ventilatori non invasivi; ventilatori a casco; fino a veri e propri polmoni artificiali (anche se il cosiddetto polmone d’acciaio non viene più utilizzato). Senza o con aiuti meccanici, abbiamo bisogno di respirare per vivere. Il Covid-19 quando non contrastato, bloccato o annientato attacca esattamente le vie respiratorie e i polmoni. E non ti fa più respirare.
Il respiro è indice anche di pace e di tranquillità (godere di un attimo di respiro), di riposo e di sollievo (il contrario di lavorare senza respiro), di indulgenza e di perdono (dare un po’ di respiro, per esempio, in ambito economico, con proroghe di scadenze per pagamenti o con allentamento della pressione fiscale o con condoni), di ispirazione e di visione (sentirsi ispirati; concepire un progetto o un’opera di ampio respiro). Il respirare e l’operare perché ci sia respiro sono pertanto un compito
universale e permanente non solo per vivere ma anche per la qualità stessa del vivere su questo pianeta: in pace, sollevati e perdonati, con grandi sogni. A proposito di pianeta Terra: anch’esso ha vitale bisogno che sia salvaguardato il suo di respiro, combattendo ogni forma di inquinamento dell’aria, dell’acqua, della vegetazione. Il dato biblico più importante sul tema è che i termini ebraico ruah e greco pneûma, scelti dai due Testamenti per nominare lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo “che è Signore e dà la vita” (lo professiamo nel Credo), hanno come primo significato etimologico proprio quello di “respiro”, insieme a quello di “vento”. L’atto del respiro umano ha quindi una affinità singolarissima con la vita stessa di Dio e con quello che lo Spirito Santo è in Dio e da Dio: amore e dono. Respiriamo per vivere; ma viviamo per amare e fare della nostra viva un dono. Lo Spirito Santo ci è dato esattamente per fare tutto questo con Gesù e come Gesù. Per tutte e tre le prospettive del respiro, quella biologica, quella esistenziale e quella spirituale, valga l’invocazione del Salmista:
“Rispondimi presto, Signore: mi viene a mancare il respiro. Non nascondermi il tuo volto: che io non sia come chi scende nella fossa” (Sal 143,7).
Restare. Declinato nella già menzionata formula/decreto “io resto a casa”. Vedi alla voce Casa.
Restrizioni. Vedi alle voci Autorità, Chiuso, Distanza, Isolamento, Governo. Altri termini utilizzati nei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri: sospensione e limitazione. Ci sarebbe solo da dire in una battuta: le uniche restrizioni che ci piacerebbero sono quelle della taglia, frutto di sano sport e diete adeguate che ci aiuterebbero anch’esse a respirare meglio e a stare meglio, di salute e forse pure esteticamente. Mentre per il resto siamo fatti per allargare gli orizzonti, senza allargarci
come persone, ma facendo tante cose belle mantenendo l’umiltà e la moderazione; per allargare gli spazi, vivendo concretamente l’accoglienza e l’ospitalità; per allargare il cuore, pronti ad amare e a
servire. Passate le restrizioni emergenziali, ritroviamo il gusto delle dilatazioni. Esse sono anche il dinamismo della Chiesa missionaria, chiamata fin dalle sue origini a dilatarsi nel mondo per allargare
universalmente il raggio del Vangelo.
Riapertura. Vedi sub contrario alla voce Chiuso. E alla voce Quando.
Resistenza. È termine che per la nostra lingua, storia e cultura ha una portata notevole, tanto da essere strumentalmente amato o odiato, come accade alle persone e alle cose notevoli. Di per sé indica l’insieme di sforzi per opporsi e non lasciarsi spezzare, annientare, vincere da qualcuno o qualcosa che è percepito come forza nemica. Si pratica in forma sia attiva che passiva. Nel primo caso è sinonimo di lotta, nel secondo di pazienza. La parola ha un utilizzo tecnico in fisica, in biologia, nella psicoanalisi, e in particolare nelle scienze storiche e politiche: dal definire il
movimento di lotta politica e militare contro il regime nazista e gli altri regimi suoi alleati nel ‘900, al descrivere ogni tipo di opposizione armata a una dittatura o a un esercito nemico. Tra le Canzoni sui Balconi in queste settimane di pandemia non è mancato l’inno della storica resistenza partigiana: “Bella ciao!”, ovviamente contestatissimo dalle sensibilità politiche di destra. Quasi proverbiale è diventato il grido di battaglia “resistere, resistere, resistere” pronunciato nel 2002 dal procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli, contro il governo a difesa dell’indipendenza
della magistratura. Dalla lotta per la Liberazione alla lotta per la Costituzione. E noi continuiamo. Dalla lotta per la Costituzione alla lotta contro il Covid-19 e per la sopravvivenza, per la liberazione dal contagio, per la vittoria. “Ce la faremo, vinceremo la guerra” è la promessa che sentiamo dai responsabili della vita pubblica in tutto il mondo. Andando alla Scrittura, l’accezione più significativa è questa volta di segno opposto: si parla di “resistenza” come forma di peccato, quello di chi “resiste” a Dio e alla sua opera. Ecco la denuncia della Corona, alias Stefano: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, così siete anche voi” (At 7,51). Per resistere al male, c’è da arrendersi al bene, e il bene viene dallo Spirito, capace di sciogliere le durezze della mente e del cuore passando attraverso le orecchie, cioè la disponibilità all’ascolto della Parola. Resilienza. Decisamente molto di moda, parola colta, usata nell’ambito della fisica poi prestata alla psicologia, ormai sdoganata e da tempo sulla bocca di tutti. Spiegata in modo semplice: “mi piego, ma non mi spezzo”. Indica capacità di reazione positiva agli urti anche forti e alle avversità anche improvvise: attenuazione e contenimento dei colpi, rimarginazione delle ferite e dei traumi, ricostruzione di sé e del proprio ambito di vita, nuovo slancio, obbiettivi nuovi da raggiungere. Direi che è una buona attitudine, una virtù da coltivare, pur dentro personalità così complicate e diverse come sono quelle di ciascuno di noi. La batosta sanitaria, psicologica, economica e sociale del Coronavirus è potente. Non facciamo che ci spezzi. E laddove tante vite umane sono state spezzate, la speranza cristiana permetta ai sopravvissuti di non lascarsi morire insieme ai propri cari: “i morti seppelliscono i morti”; i vivi seppelliscono i resti, le reliquie, di persone che vivono nella Vita. “Perché non sono gli inferi a renderti grazie, né la morte a lodarti; quelli che scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. Il vivente, il vivente ti rende grazie, come io faccio quest'oggi” (Is 38, 18-19a).
Recessione. Ci tocca. Quando si uscirà dall’emergenza pandemica, rimarrà l’emergenza economica su cui già i governi nazionali e sovranazionali stanno lavorando alacremente, con non poche difficoltà
gestionali, di previsione e di visione. In Europa siamo alla guerra dei “Bond” (e non c’è 007 ad aiutarci). I numeri di questo blocco o stagnazione o rallentamento delle economie non sono facili da fissare né da comprendere per un profano come me. L’indice più in fibrillazione per l’occidente capitalistico è quello delle Borse. Qualcuno ha già preconizzato una nuova Grande Depressione.
A naso, i problemi più evidenti sono l’ondata (speriamo non uno tsunami) di nuova disoccupazione e la crescita della povertà. Pur con un segnale sorprendente, di controtendenza: l’emergenza ha reso
possibile una certa velocizzazione nella burocrazia degli iter formativi e un numero di nuove assunzioni che non si sarebbero mai viste altrimenti. Qualcuno si è chiesto: ma quanti medici, infermieri, operatori neolaureati o neodiplomati e quanti in attesa di contratto di assunzione c’erano in giro per il paese? E com’è che in quattro e quattr’otto ci sono i soldi per fare così tante nuove assunzioni? Se è funzionato per il settore sanitario, può funzionare per altri settori e per tanti altri qualificati disoccupati? Forse sono tutte domande ingenue e impostate male… però…Non ho nessuna competenza per suggerire cose, strategie, soluzioni. Mi appello alla Parola delle “colonne” della Chiesa delle origini a Gerusalemme: “Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello
che mi sono preoccupato di fare” (Gal 2,10). Vedi anche alla voce Fundraising.
Remoto. “Prima era l’aggettivo da mettere vicino al passato che al Nord si fa così fatica a coniugare. Ora è il modo di vivere virtuale: tutto – dal lavoro alla spesa – si fa da remoto” (*). Vedi le riflessioni alla voce Distanza. Qui c’è solo da dichiarare per l’ennesima volta una benedizione per l’intelligenza e il genio degli uomini che sono stati capaci di attuare la rivoluzione digitale: avrà pure cambiato
drasticamente, in meglio o in peggio, le nostre esistenze; avrà pure introdotto nuovi rischi e nuove tentazioni; ma in una circostanza come questa è veramente indispensabile per custodire una sostenibilità e una qualità di vita secondo parametri di equilibrio.
S:Silenzio. “È lo stato sonoro in cui ci si è ritrovati da quando si è imposta la chiusura temporanea di bar, ristoranti e attività commerciali che non garantiscono beni di prima necessità. Il silenzio è percepibile nelle immagini dall’alto delle città deserte, ove può fare eco anche il più piccolo rumore. È il silenzio che accompagna queste giornate e che cerchiamo di riempire con parole, suoni e musica” (**). Si ritorna a usare l’espressione classica: “silenzio assordante”, per dare enfasi a questa percezione potente che abbiamo soprattutto nelle grandi città. Un semplice richiamo squisitamente spirituale. Il silenzio è da sempre, nell’esperienza biblica e cristiana, la modalità privilegiata dell’incontro con Dio nella preghiera, sia personale che liturgica (anche se in quest’ultimo caso molti lo dimenticano: sia fedeli rumorosi e chiacchieroni; sia preti che soffrono di horror vacui e riempiono ogni spiraglio con parole non sempre opportune). Sfruttiamo l’occasione al meglio. Impariamo il raccoglimento, che significa silenzio cercato e non solo subìto; ascolto di Dio e colloquio con Dio. A maggior ragione durante la prova della malattia e del dolore, come per il buon Giobbe: “Porgi l'orecchio, Giobbe, ascoltami, sta' in silenzio e parlerò io” (Gb 33,31); o come durante le lamentazioni per la distruzione di Gerusalemme: “È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (Lam 3,26).
Sirene. Questa voce la inserisco come controcanto della precedente. Si usa dire: “il silenzio è rotto solo dal suono, dallo stridore delle sirene”. Di solito valeva per il “dopo attacco bellico”, o il “dopo catastrofe naturale”. In città come Milano questo è oggi molto percepibile: davvero è uno strazio autentico, ogni volta che all’improvviso senti partire quel suono, quel grido meccanico, e pensi che un’altra persona sta male… e magari la conosci… e magari sta morendo. Solo per alleggerire il cuore: avete mai visto in uno show televisivo (come Italia’s got talent) la performance dei cosiddetti “rumoristi”, gli artisti capaci di riprodurre un incredibile numero e tipo di suoni solo con la propria voce al microfono? Ecco: io ne ricordo uno, un bambino che sapeva riprodurre alla perfezione tutte le sonorità e melodie delle sirene: ambulanze, vigili del fuoco, polizia di stato, ecc. Mi fa tenerezza
questo semplice ricordo, e un po’ mi aiuta a non spaventarmi troppo al sentire oggi una sirena, a non cadere nella trappola delle seducenti Sirene di mitologica memoria (omerica e disneyana), ma a pensare, con il cuore di bambino, solo a un gioco di note particolarmente acute.
Servizio sanitario nazionale. Meno male che c’è. E meno male che in Italia, in forza del modello di Stato Sociale e in base al diritto costituzionale alla salute di tutti gli individui, esso è pubblico e
fondamentalmente gratuito. Ma deve essere sempre in cima alle occupazioni e preoccupazioni di chi
governa e amministra la cosa pubblica. Esso ha bisogno oggi e sempre del meglio, di più investimenti, di più finanziamenti, di strutture ammodernate, di personale qualificato, di capacità ricettiva e operativa che sia subitanea e universale, laddove urgente o semplicemente indicata per la salute di ogni persona umana. Benemerita anche l’iniziativa privata, purché non sia foriera di
discriminazione censocratica nella qualità dei trattamenti. Quasi ridondante dire che ancor più benemerita è ogni iniziativa pubblica o privata per il sostegno economico e finanziario di questo
Servizio.
Sanificare. “È il verbo con cui si rende sano un ambiente o un oggetto, un alimento in modo da renderlo rispondente alle norme igieniche. Ai tempi del Corona virus, è l’azione che può prevenire il contagio, limitando la diffusione del virus che pare avere lunga durata anche sulle superfici. Oltre al gesto del lavarsi le mani, la sanificazione sta interessando tutte le superfici comuni degli ambienti pubblici e privati: dai corrimano delle scale alle maniglie di porte, ascensori e portoni, dagli uffici, ai mezzi pubblici fino alle strade. La lotta al virus ha inevitabilmente fatto registrate il boom di vendite di prodotti disinfettanti, ormai introvabili” (**). Vedi anche alle voci: Amuchina e Lavarsi. Nello spirito euristico-spirituale del gioco di parole, non si può non sottolineare l’assonanza e l’affinità tra sanificare e santificare, che è la stessa tra salute e salvezza (in latino “salus” è termine unico per
entrambe le cose). Un accorato ammonimento può essere quello di non pensare mai le due dimensioni e le due premure come alternative o peggio contrapposte. “Mens sana in corpore sano” dicevano gli antichi; libertà graziata in un corpo guarito, direi io. Al tempo dell’alleanza sinaitica, durante il cammino dell’esodo, questo incastro tra santità e pulizia era radicato nella coscienza religiosa di Israele: “Il Signore disse a Mosè: «Va' dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti»” (Es 19,10). Gesù nel suo insegnamento ha approfondito la cosa, dicendoci che la pulizia è una cosa del cuore, e che la sporcizia che ci rovina viene dal di dentro (cf Mt 15, 10-20). Ma con il lavare i piedi dei suoi (cf Gv 13) ha confermato l’idea che si dia un’innegabile relazione simbolica tra la sanificazione e la santificazione per grazia salvifica. Siate sani perché puliti, santi perché salvati, per parafrasare la Torà: “Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo” (Lv 11,44).
Solidarietà. “Si dice di quel gesto di benevolenza e comprensione che si manifesta per aiutare o dare supporto a una situazione di dolore, di disagio, di difficoltà. Il racconto solidale dell’Italia di questo – come di altri momenti – vorremmo fosse un ricordo privato per ciascuno. L’invito è di trovare tra le immagini, da quelle dei momenti più domestici e quotidiani, alle più forti e toccanti che ricorrono nei
notiziari, una che possa esprimere cosa ricorderemo della solidarietà di questi giorni” (**). L’approccio di Claudia è molto soft. Solidarietà è concetto un po’ più complesso. Lo accennavo alla voce Connessione. Solidarietà è un dato, prima di essere un compito. Il dato è quello del “legame di interdipendenza tra gli uomini e i popoli che si manifesta a qualsiasi livello” (così il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 192). Il compito è quello di trasformare questo legame in effettive
relazioni e “impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti” (così sempre il CDSC, n. 193). Lo è già l’incarnazione del Figlio di Dio; ma ancora più la morte in croce di Gesù è il vertice e il modello di tutto quello che possa significare solidarietà. Scrivendo queste pagine durante la Settimana Santa fisso insieme a ogni cristiano lo sguardo sul Crocifisso e invoco per il nostro mondo una rinnovata esplosione di solidarietà autentica. 
Sforzo e sacrificio. Colloco queste due parole volutamente dopo Solidarietà perché non le sono estranee. E le tengo insieme per un motivo molto contingente: sono tra le più ripetute in sede di conferenza stampa da parte del Premier del nostro governo, nel chiedere con fermezza e cortesia all’intera cittadinanza di fare ciascuno la propria parte nella lotta contro il Covis-19. Non sono parole che piacciono di primo acchito, perché esigono scelte e azioni che pesano, costano, logorano. Ma quale persona seria e appassionata della vita non sa che in tutti i momenti più cruciali della propria esistenza sono richiesti sforzi e sacrifici, soprattutto quando ci sono in gioco l’amore e il dolore? Un genitore, un partner, un amico, un prete, un professionista per vocazione, uno sportivo, un artista, un
diversamente abile… tutti hanno la consapevolezza degli sforzi e dei sacrifici che ci vogliono per raggiungere traguardi significativi per sé e per le persone che si amano. Dice Giobbe nella Scrittura: “Ma il giusto si conferma nella sua condotta e chi ha le mani pure raddoppia gli sforzi” (Gb 17,9). Anche Gesù ci ha chiesto lo sforzo (“Sforzatevi di entrare per la porta stretta”: Lc 13,24) e si è reso modello del sacrificio più alto e fecondo di tutti, un sacrificio esistenziale che ha superato e reso vani tutti i sacrifici rituali antichi: “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). 
Streaming. Vedi alle voci Distanza e Remoto. Ho già strabenedetto i prodigi della tecnica, compresa questa possibilità di trasmettere in modo telematico contenuti audio e video in tempo reale e a destinatari potenzialmente universali. Desidero utilizzare questo spazio su un tema pastorale divenuto centrale in questo caos. Le Sante Messe celebrate in streaming. Mi sono trovato in pieno accordo con un contributo recente di un mio compagno di studi a Roma, il bravo liturgista don Paolo Tomatis (i virgolettati che trovate in questa voce sono suoi). Semplifico un po’.
a) La messa in streaming, come già quella trasmessa in radio o in televisione non permette propriamente una partecipazione: “la partecipazione piena alla vita sacramentale si dà solo attraverso la presenza reale del fedele con il proprio corpo”. Lo ha affermato anche il vescovo Mario nell’omelia della prima domenica di questa surreale quaresima: “la differenza tra partecipare alla messa in Chiesa e seguire la messa in televisione è la stessa che c’è tra stare vicino al fuoco che
scalda e rallegra e guardare una fotografia del fuoco”. b) A proposito di messe in radio o alla TV: ci sono già; “non sono queste più che sufficienti?”; i palinsesti radiotelevisivi soprattutto cattolici
hanno addirittura riorganizzato la loro proposta per offrire un servizio quotidiano e festivo il più adeguato possibile alle varie esigenze. Perché non indicare ai propri fedeli questo patrimonio, già pronto e ben curato, senza la premura, o l’ossessione, di rifare in proprio, con dispendio di energie, con esiti normalmente mano qualificati, e con qualche scivolamento narcisistico? c) C’è però una retta e nobile intenzione che renderebbe vantaggioso lo streaming parrocchiale: quella del “contatto che si crea con il proprio pastore e la propria comunità, anche se presente in modo digitale”.
Benissimo: allora si usi pure la comunicazione telematica per promuovere “questa istanza di prossimità, familiarità e di comunità”, ma “rimane la domanda: perché proprio la messa?”, dal momento che – si diceva – non è veramente partecipabile. Il suggerimento è quello di “creare un raduno social intorno ad un altro tipo di preghiera”, di ascolto della Parola, di dialogo fraterno (contrastando anche una certa deriva clericale). d) Comunque si decida di agire, si rimanga sempre molto coscienti “del fatto che si tratta di una situazione straordinaria, di emergenza e di ripiego”.
e) Se si decide per la messa parrocchiale in streaming, ricordarsi di tre cose. Uno: il celebrante non “riproduca e amplifichi in video i problemi della celebrazione ordinaria” (che vanno dalla spettacolarizzazione alla trascuratezza sciatta). Due: i fedeli a casa (soprattutto se utilizzatori di
tablet o smartphone, diano senso all’utenza non facendo “profanamente” altro durante la trasmissione. Tre: terminata la diretta on line, cancellare: che senso ha rivedere una celebrazione in differita? Perderebbe ogni presunta idea di comunione hic et nunc tra pastore e comunità (tanto vale guardarsi una messa solenne di Pio XII, per gli appassionati del genere). f) Forse la cosa più importante di tutte: non va confusa la pratica della comunione eucaristica spirituale (vedi alla voce Desiderio) con l’assistere a una messa alla radio, in Tv o in streaming. Certo, è cosa buona e giusta accostare le due cose, se preparate per tempo. Ma la comunione spirituale ha senso e vale a prescindere della trasmissione mediatica della messa. Non fosse altro che è nata secoli prima della
radio e della TV e di internet. 
Supermercato. “Mala tempora currunt: i supermercati sono sempre più pieni di gente, le chiesa sempre più vuote”. Chi non ha almeno una volta sentito dire questa cosa, in epoca di secolarizzazione e di scristianizzazione? Parole sconsolate di denuncia e di ingaggio per una nuova evangelizzazione.
Oggi invece sono la descrizione neutrale dello status quo. I supermercati sono pieni – pur nello scaglionamento delle utenze – perché giustamente esentati dall’ordinanza di chiusura: la gente deve
poter nutrirsi (ma solo nutrirsi, mi raccomando; gli scaffali con merce superflua per la sopravvivenza sono barrati, banditi). Le chiese sono aperte, ma tendenzialmente vuote: il culto pubblico è sospeso e i grandi frequentatori appartengono alle fasce di età più raccomandate alla restrizione di non uscire da casa. Grazie di cuore a tutti coloro che lavorano nel rifornimento, nella sistemazione e nella vendita della merce alimentare. Grazie a coloro che si prestano a disciplinare i compratori. Grazie ai proprietari e amministratori, quando non speculano sull’emergenza, anzi sanno con creatività venire incontro ai nuovi bisogni. Del panico da acquisti abbiamo già trattato sopra. Ma c’è un altro pensiero che qui può starci. La metafora del supermercato è spesso utilizzata per tacciare un certo modo di vivere la propria religiosità. Si tratta di quel auto-dichiarato credente che frequenta la chiesa, come edificio o come ambito, nei tempi e agli orari che vuole (tanto i supermercati sono h24), per selezionare i prodotti che vuole (secondo il personale gusto e attento al prezzo), meglio ancora se
ci sono le casse automatiche (così da non dover interagire con la classe sacerdotale, invadente e bacchettona). La logica è la seguente: della dottrina cattolica, del culto liturgico, della vita comunitaria prendo – anzi pretendo (perché il cliente ha sempre ragione) – solo quello che mi garba, che “mi costa” meno, con il diritto sacrosanto al reclamo. Vuol dire non aver capito nulla del cattolicesimo, della sua identità e della sua forma di esperienza autentica. La dottrina, il culto, la comunità sono un tutt’uno che solo come tale veicola un vero cammino alla sequela del Signore Gesù. Il Quale ebbe a lamentarsi con non poca focosità: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!” (Gv 2,16).
T: Tampone. Molto diretta la descrizione di Silvia: “per le ragazze è una parola più comune, perché è sinonimo di assorbente interno (il tampone si usa per fermare le emorragie). Il termine viene dal francese tampon, “tappo”. Quelli di cui si parla oggi sono i tamponi diagnostici,  usati per verificare l’esistenza degli agenti patogeni del Codiv-19” (*). A vederli assomigliano tanto ai cotton fioc, ironia della sorte banditi in Italia proprio dall’inizio del 2019 (l’anno per i secoli associato a questo
malefico virus), se non fatti di materiale biodegradabile. A parte le battute, sono utilissimi, semplici da produrre e facili da gestire; solo richiedono tanta pazienza e delicatezza nella rilevazione del muco e della saliva dai potenziali pazienti e tanti turni nei laboratori di analisi. È ancora vivo il dibattito scientifico e amministrativo: tamponi solo per i sintomatici gravi o tamponi a tappeto a tutta la cittadinanza? Ne basta uno, o occorre sempre fare il secondo tampone di conferma? Quale operatore sanitario è autorizzato a farli e dove (a domicilio, in strutture ambulatoriali, per strada o in auto?) E poi ovviamente la questione economica: quanto costano e chi li paga? La parola fa venire in mente anche altri termini della stessa famiglia, che usiamo nel discorso quotidiano non sanitario. Tamponare: mettere un tappo a una falla, e quindi sinonimo di porre rimedio. Un’arte preziosa. Tamponamento: uno degli incidenti stradali più diffusi, quando si verifica una collisione tra mezzi di trasporto, peggio se “a catena”. Un’evenienza sfortunata e dolorosa. Il gesto del fare il tampone ha una sua somiglianza con il gesto taumaturgico dell’Effatà per la guarigione del sordomuto, gesto che poi è diventato liturgico nella celebrazione del Battesimo dei bambini. In realtà qui il “medico” non preleva la saliva dalla bocca del malato, ma immette la propria saliva nella bocca del malato: “gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»” (Mc 7, 33-34). Comunque un’intimità orale per  qualcuno un po’ disgustosa, ma in realtà poco invasiva e salutare. Come ci invita a fare la liturgia ambrosiana delle ore, facciamo memoria ogni giorno del nostro battesimo, e sia lo Spirito di Gesù a trasfigurare ogni nostro passo di cura e di lotta contro il male.
Triage. “Termine adottato dalla lingua francese, sta a significare smistamento, cernita. È un sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni, sulla base di una valutazione immediata di
gravità, quadro clinico del paziente e cure necessarie. In casi di eventi importanti che coinvolgono un numero assai ampio di persone, la decisone della priorità d’intervento può essere soggetta a importanti risvolti etici e morali” (**). Come dice bene Claudia, qui si è toccato uno dei drammi etici più seri. Se per carenza di mezzi (personali e materiale) di intervento, si arriva allo sciagurato momento di decidere a chi dare la precedenza o più radicalmente chi prendere in carico e chi rifiutare: quale criterio deve guidare la scelta? A chi la responsabilità di compierla? Si sono lette notizie tremende. Andrebbero certo verificate. In Olanda, ad esempio, sarebbe stato pensato una sorta di contratto da far sottoscrivere ai pazienti più anziani, con cui scegliere – in caso di positività al Covid-19 – tra per una lunga e magari non risolutiva ventilazione o l’eutanasia. Ma stando a casa nostra, mi è capitato di avere tra le mani un documento della SIAARTI (= Società Italiana di Anestesia Analgesia
Rianimazione e Terapia Intensiva) dal titolo già angosciante: “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio
tra necessità e risorse disponibili”. Non posso qui e non sono in grado di entrare nel dettaglio: mi basta far intuire la portata del problema. Può la vita chiederti chi salvare e chi no? A Gerusalemme, a Pasqua accadde proprio questo. “A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba. Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: «Chi volete che io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia. Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua». Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse: «Ma che
male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!»” (Mt 27, 15-23). Una scelta fu fatta; spettava all’autorità; la fece la gente; ma “sobillata” da interessi oscuri. Può oggi un medico, un paziente, una famiglia dover trovarsi davanti al medesimo bivio? A meno che sopravvenga la grazia del massimo amore evangelico che porta al sacrificio di sé per la salvezza dell’altro. Ha commosso tutti la vicenda di don Giuseppe Berardelli, arciprete 72enne di Casnigo. Ricoverato all’ospedale di Lovere per coronavirus, ha rinunciato volontariamente al respiratore, perché fosse destinato a un paziente più giovane. Sono scelte uniche, singolarissime: nessuno può esigerle o imporle. Solo l’amore le può giustificare. Come avvenne nel 1941 per San Massimiliano Maria Kolbe nel campo di concentramento di Auschwitz… e come avviene in tante storie anche non ufficiali e nascoste di santità.
U: Untore. “Neologismo seicentesco e di reminiscenza manzoniana. Nel XXXI e nel XXXII capitolo de I Promessi Sposi si legge di reazioni popolari e processi contro gli “untori”, coloro i quali erano sospettati di diffondere la peste attraverso l’unzione di persone e oggetti. Un atto compiuto consapevolmente e spesso dietro denaro. Nella fantasia popolare e “nell’istinto di massa”, la metafora dell’untore è comparsa tra i titoli di stampa. Forse per la voglia di dare una visione romanzata
al dramma odierno, di questo epiteto non si è considerata la sua accezione più infima: la consapevolezza del compiere un gesto che infetta e può stroncare migliaia di vite umane, come fu per l’epidemia del 1630. Viene da chiedersi se al posto di “untori” sarebbe stato più opportuno chiamarli più oggettivamente “diffusori, propagatori” o nella versione inglese “spreader”, sceverando il termine da qualsiasi volontà e lucida determinazione dell’intento. Che si porti rispetto al dolore di chi ha subito un lutto e a quell’inamovibile - seppur ingiustificato - senso di colpa che può fondarsi su questa dilagante quanto crudele e silenziosa modalità di trasmissione che miete, ogni giorno, migliaia di vittime” (**). Brava Claudia, analisi ottima e pertinente. Quando leggiamo la Bibbia il tema dell’unzione è di segno diametralmente opposto: non diffonde malattia, ma grazia, autorità, guarigione; ed è centrale. È il gesto rituale, compiuto con l’olio, che consacrava i re, i sacerdoti e
i profeti. È il nome del Salvatore atteso da Dio: il Messia, il Cristo, l’Unto del Signore. Gesù, l’Unto (senza pure mai aver ricevuto un’unzione rituale, ma direttamente dallo Spirito del Signore) mandò i suoi discepoli a incontrare i malati e a ungerli con olio per guarirli (cf Mc 6,13). Per i cristiani l’unzione diventa il segno sacramentale della propria appartenenza e conformazione a Gesù. E viene conservato, sempre nella forma solenne ed efficace di grazia, ovvero sacramentale, il gesto di ungere i malati per dare conforto e sollievo allo spirito e al corpo (Gc 5, 14-15). Non ci sono untori di peste, solo contagiatori virali loro malgrado. Ci vorrebbero invece untori di grazia, anche se le regole di
distanziamento valgono anche per i sacerdoti che sono oggi per lo più impediti di amministrare il Sacramento dei Malati. Tuttavia gesti di fede e di tenerezza compiuti da medici e infermieri
possono “ungere bene”, veicolare tanta grazia di Dio, pur non essendo sacramenti.
Uscita. Si tratta dell’evidente contrario del Restare a casa. Si tratta della voglia viscerale più condivisa dalla gente: uscire di casa e prendere aria, uscire dal tunnel dell’emergenza pandemica.
Ma c’è anche un’accezione oscura: l’uscita “di testa”. Brutta espressione, lo riconosco, ma il problema sussiste in tutta la sua gravità, anche se per lo più taciuto dall’informazione. Ci sono malati
affetti da varie psicosi che in una situazione di restrizioni vedono impennarsi lo stadio di rischio (anche perché magari si è allentato – nel clima generale di sospensione e posticipazione – il monitoraggio da parte dei servizi di cura). Qualche voce ufficiosa parla di incremento del tasso di suicidi effettivi o tentati. In senso più edificante, questa parola è rientrata nel vocabolario
ecclesiale grazie a papa Francesco, che ne ha fatto il programma del suo pontificato e della riforma che esso vorrebbe propugnare: la Chiesa in uscita. Quando si ha tempo è sempre utile rileggere la Evangelii Gaudium, dove si trova tutto il pensiero di papa Bergoglio. Mentre aspettiamo di poter uscire, stiamo alla scuola di Gesù, che un giorno venne ritenuto dai suoi familiari “fuori di sé” (Mc 3,21); che si manifestò come Messia al cieco nato guarito solo una volta che lo incontrò “fuori” (Gv 9,35), dove era stato cacciato; che nella sua itineranza evangelizzatrice usciva fuori dalle città e dai villaggi, per andare anche “altrove” (cf. Mc 1,38); che morì crocifisso “fuori della porta della città” (Eb 13,12). Da cristiani chiamati alla missione, il nostro desiderio è duplice: uscire per uscire. Uscire presto dalla reclusione sanitaria, per uscire ancora dai recinti ecclesiali e andare incontro al mondo che aspetta l’offerta del Vangelo.
V: Vita e valori. Parole grandi, belle, quasi infinite. La paura e il rischio di morire, che accompagnano da sempre l’esistenza umana, ma che in queste settimane sono diventate anch’esse pandemiche, ci hanno costretto a interrogarci sulla vita, la sua qualità e bellezza, la sua irrinunciabilità e fragilità, la sua dignità incalpestabile e sacralità inviolabile. A interrogarci sul senso della vita, sui valori della vita e sulla loro “scala”. Anche lo spirito sotteso a tutto questo gioco, a questo esercizio di meditazione sparso, non sistematico, sulla realtà e sulla Parola, è frutto di questo interrogarsi sulla vita. Che cosa è vita? Quali sono i valori più importanti, non negoziabili (amava dire un tempo il Magistero cattolico)? Che cosa è davvero Essenziale (altro termine che ci poteva stare nel nostro diario di gioco)? Qui è difficile fare citazioni frammentarie della Scrittura: essa è tutta
intrisa di Vita e di Valori; racconta la vita e il suo valore agli occhi di Dio. Bastino le parole immortali di Gesù: “Io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19).
Virus e Virologi. Teniamoli insieme, senza offesa per gli scienziati. Di Coronavirus, e di questo Covid-19 abbiamo già trattato. Qui mi piace segnalare proprio il lemma “virus”. Una delle sue probabili origini etimologiche ha a che fare con il latino virus (normalmente tradotto “veleno”) che sta per *visus dalla radice indoeuropea vis- che significa  “essere attivo, operare alacremente, assalire”. Ma questa radice assomiglia troppo a quella di vis (plurale vires) intesa come “forza”
(anche violenta, appunto); a sua volta a quest’ultima si lega il termine vir, cioè “uomo maschio” e virtus, “virtù”, intesa come forza maschile, di corpo e solo dopo di animo, e perciò morale. Insomma si ritorna alla scoperta che tutto è connesso, nel bene e nel male: dal veleno alla virtù morale, passando attraverso il corpo dell’uomo e alle sue forze. Senza scadere nel facile moralismo, ha una sua logica richiamarci all’esercizio delle virtù, almeno quelle teologali di fede, speranza e carità, per affrontare al meglio il veleno e la violenza di questa pandemia. Circa i Virologi. Esaustiva Claudia: “Virologa/o è il medico specialista in Virologia, un ramo della microbiologia che studia e analizza i virus, la loro tassonomia, la loro cultura, la genetica, le cause e le conseguenze annesse alla loro diffusione. Sono gli esperti che i Governi, i mass media e l’opinione pubblica stanno interpellando per comprendere gli andamenti dei contagi, studiare dati (ancora pochi per redigerne una vera e propria letteratura del Coronavirus), predisporre nuove restrizioni contro la diffusione del virus. Se nell’immaginario comune sono visti come scienziati chiusi in laboratori, a movimentare silenziosamente provette sigillate, intenti nell’osservazione al microscopio, i virologi adesso parlano alla stampa, presenziano programmi tv e sono portavoci delle teorie e degli studi scientifici in
corso. A loro, spesso, anche il compito di “fare comunicazione” e il dovere di ricordare quali precauzioni adottare per evitare il contagio” (**). Cosa aggiungere? Il consiglio è semplicissimo: che ciascuno faccia il proprio mestiere e lo faccia bene. Confesso di essere tra quelli che – sbagliando – ha cominciato a non avere in simpatia i virologi (e i colleghi epidemiologi) e a fare zapping appena compaiono in TV, con la voglia di gridare: “Ma state di più nei laboratori, e meno nei talk show televisivi!”. Ripeto: è un atteggiamento infantile e irriconoscente, perché – lo dicevamo – si ha bisogno di informazione competente. Ma vorremmo scoperte scientifiche, più che tavole rotonde.
Vaccino. “Nella storia della medicina è considerato la chiave di volta per debellare influenze e malattie infettive. Argomento fino a poco tempo fa controverso, oggi come allora, la parola vaccino equivale a speranza” (**). Commovente la sua etimologia. La riporto alla lettera dal sito
www.etimo.it: “latino vaccínus da vácca. Come aggettivo: di vacca. Come sostantivo: vaiolo benigno preso dalle mammelle delle vacche per innestarlo ai bambini, al fine di preservarli dalla infezione più grave del vaiolo così detto arabo”. L’idea di un animale così mansueto, cui tanto deve la nostra
alimentazione umana, e l’idea del seno materno, come sede di risorse medicali, sono affascinati.
Mi piace scoprire che nell’Antico Testamento la giovenca, essendo bovino di sesso femminile, solo in via eccezionale poteva essere usata per i sacrifici cultuali. Una regola stranissima la troviamo nel libro dei Numeri: ci si riferisce alle ceneri della giovenca rossa “senza macchia, senza difetti e che non abbia mai portato il giogo”: con le sue ceneri veniva preparata l'acqua lustrale per purificarsi dopo aver toccato un morto (cf Nm 19,1-12). Una vacca particolare come strumento di purificazione; un vaccino come strumento di guarigione. I conti sembrano tornare. 
Video. Vedi già alle voci Distanza, Remoto, Streaming. In questo tempo di emergenza si moltiplicano nelle nostre vite Videochiamate,
Videochat, Videomessaggi, Videoconferenze, e cose simili. Benvenuti! Oso però sommessamente dire che occorrerebbe – ma è la mia sensibilità – essere più moderati e modesti (della modestia di cui
parlavano i nostri nonni). Oso altresì suggerire che l’impatto forte del “vedere e farsi vedere” non
è mai la cosa più importante. Mi persuade a questo proposito la declinazione in tema comunicativosociale che è stata fatta dalla pagina dei discepoli di Emmaus. È vero: il mistero della risurrezione di Gesù ha compreso la dinamica del farsi vedere vivo (ma solo ad alcuni e solo per poco più di un mese). Ma nell’incontro con i discepoli di Emmaus si manifesta un’altra dinamica (cf Lc 24, 13-35). Quando essi vedono Gesù, in realtà non lo riconoscono; quando finalmente lo riconoscono non lo vedono più. Vale anche per le parole: mentre conversano anche lungamente con lui non
comprendono fino in fondo; solo quando finisce la conversazione nel gesto silenzioso del pane spezzato, allora riconoscono l’ardore del cuore acceso dalla Parola. Parole e immagini sono importanti, ma non decisive per riconoscere il mistero e l’amore. Questi ultimi, anche nelle nostre relazioni, stanno sempre oltre; e possono essere solamente accennati, ma anche mistificati, da sole parole e sole immagini.
Z: Zona. È un termine che ha ricevuto, in questa disavventura, via via diverse colorazioni e qualificazioni. “Zona rossa”, “zona arancione”, “zona gialla”, “zona protetta”. “Zona rossa: espressione che deriva anch’essa dal lessico militare, oggi, si definisce tale un’area ad alto rischio di contaminazione verso la quale le Autorità Sanitarie e le Autorità locali hanno predisposto dei
veri e propri divieti che impattano sulle abitudini di vita della comunità residente” (**).
Anche per questo ambito non ci siamo fatti mancare la polemica politica: chi la stabilisce (decisione dall’alto e dal centro o dai territori debitamente consultati)? quanto dura? chi controlla e valuta il rispetto e le eccezioni? è veramente efficace a breve, medio, lungo termine? L’idea di dividere, di confinare, ha il sapore dell’antico “divide et impera”, e pare liberticida per come oggi abbiamo imparato ad essere mobili e cittadini del mondo. Ancora una volta credo sia importante evidenziare l’ovvio: la provvisorietà assoluta di questi interventi e l’impegno a mantenere vivo il sentimento di appartenenza larga, la più larga possibile: quella che dà il respiro della fraternità universale ad ogni abitante di questa Terra. Chi legge con attenzione la geografia del ministero pubblico di Gesù, saprà che per lui non c’erano zone proibite, sconsigliate, pericolose (anche se forse obbiettivamente lo erano). Galilea, Samaria, Giudea, Tiro e Sidone, Decapoli, Cisgiordania. Il vangelo è rispettoso delle
diversità locali, ma non può essere racchiuso, imprigionato: “la parola di Dio non è incatenata!” (2 Tm 2,9b). Zero. Termine numerale, matematico: indica il numero che precede uno e tutti i numeri positivi e che segue tutti i numeri negativi. Da solo indica anche “niente, nullo” (da qui la sua portata anche filosofica). Ma quando lo aggiungi una o più volte a una cifra, questa cifra viene trasformata in una cifra proporzionalmente più grande (mi pare si chiami “zero operatore”). Insomma una cifra e un simbolo che da secoli appassionano i cultori delle scienze ma anche dei misteri. Faccio subito un approfondimento spirituale, anche se mentre scrivo non riesco a recuperare il testo preciso. Ricordo un’omelia di don Primo Mazzolari meditata in seminario, che ci comunicava più o meno questo
pensiero: Gesù è quell’uno, quella singolarità, che posta davanti a tanti zero (tutte le altre cose di questo mondo che come tali valgono zero, e tutte quelle persone che si sentono o sono giudicate uno zero) dà valore grandissimo, tendenzialmente infinito tanti più sono gli zero, a tutti e a tutto. Con Gesù in testa, alla guida, lo zero diventa moltiplicatore di magnificenza. E Gesù ci sapeva fare con la moltiplicazione (almeno del pane e del pesce, quando in atto c’era la sua compassione per la folla).
Nell’ambito del nostro gioco da Covid-19, il termine lo sentiamo almeno in tre espressioni.
Il Paziente Zero: “nel corso di un’indagine epidemiologica è il primo paziente da individuare durante la diffusione di un’epidemia. È la pedina di questa sfida di cui è stato doveroso ripercorrere tragitti e spostamenti sulla scacchiera mondiale” (**). Più letterario il contributo di Silvia: “Nel Capitolo 31 dei Promessi Sposi, Manzoni parla dei due delegati che spediti nella Milano invasa dalla
peste, “Vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna. Le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più, ma
il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare”. Oggi si chiamano “Superdiffusori”, ma il concetto non cambia. Restando a Manzoni, ma fuori dall’uso scientifico, va segnalata la parola “untore”, che vive una nuova giovinezza” (*). In Italia, nell’ultima settimana del febbraio 2020, c’è stata quasi una caccia al tesoro (perché scoprirlo avrebbe avvantaggiato il contenimento del contagio) ma anche un caccia alle streghe (perché serpeggiava inespressa l’accusa di aver portato il morbo in mezzo a noi). Comunque né il tesoro né la strega/stregone sono stati individuati. Dobbiamo accettare che l’inizio, l’origine, la provenienza delle cose non sempre ci è dato di conoscerli. “Entrò nel tempio e, mentre insegnava, gli si avvicinarono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo e dissero: «Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?» […] Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». Allora anch'egli disse loro: «Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose»” (Mt 21, 23.27). Ma anche la data della fine delle cose, non è dato sempre conoscerla. “Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24,36). Il parametro R0. “(si legge “Erre zero”): è il valore che indica il «tasso di riproduzione virale». Il numero medio di contagi che può propagarsi da una persona infetta. È il fattore su cui si basano le previsioni e le statistiche che rappresentano le cosiddette «curve di picco»” (**). Se ho capito bene il momento atteso è quello in cui il valore di questo fattore sarà inferiore a 1, ovvero quando statisticamente ciascun contagiato contagerà meno di un individuo.
Zero contagi. “È l’espressione con cui si indica l’obiettivo che tutto il mondo, e ciascun Paese con le sue modalità, intende raggiungere. Il 19 marzo a Wuhan, da dove è partito il focolaio, e nell’intera provincia di Hubei, si è festeggiato il traguardo dei “zero contagi” dopo tre mesi di blocco totale. Un traguardo raggiunto, appunto, ma non ancora la proclamazione di una vittoria” (**). Purtroppo nei giorni seguenti le notizie da Wuhan sono diventate sempre più contraddittorie. Facciamo nostra la profezia antica, che diventi preghiera di supplica. “Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra della mia giustizia. Ecco, saranno svergognati e confusi quanti s'infuriavano contro di te; saranno ridotti a nulla e periranno gli uomini che si opponevano a te. Li cercherai, ma non troverai coloro che litigavano con te; saranno ridotti a nulla, a zero, coloro che ti muovevano guerra. Poiché io sono il Signore, tuo Dio,
che ti tengo per la destra e ti dico: «Non temere, io ti vengo in aiuto»” (Is 41, 10-13). Dovrei concludere con queste stupende parole di Isaia. Ma avevo promesso all’inizio una conclusione divertita, dando un piccolo spazio anche alle lettere “straniere”. Eccola.
J come Jolly o Joker (in italiano: giullare) Nel gioco delle carte è la carta che vale quello che vuoi tu e che ti serve in vista del fare punti e vincere la mano. La versione inglese, Joker, indica anche il nome del mitico e cattivissimo (vedi anche l’omonimo e premiato film del 2019, ancora quell’anno) avversario di Batman, l’uomo Pipistrello. Diciamo che per noi tutto si invertite: essendo nostro nemico il “virus del Pipistrello”, il nostro eroe diventa Joker, ma quello buono, la carta Jolly che spero presto gli scienziati e i medici trovino per vincere la partita.
K come Kommunistischen Partei (nella dizione originale di Marx e Engels) o come Fattore K (concetto politico riferito alla presenza di un partito comunista in un paese occidentale). Ho già accennato alla provocazione: l’idea – del tutto immotivata – per cui questo virus sia battibile solo sotto un regime comunista come quello delle Repubblica Popolare Cinese, la cui mobilitazione (almeno nella propaganda) sa di incredibile per le nostre amministrazioni democratiche in affanno.
Non credo ci sia bisogno se non di sorridere di questa semplificazione. Peggiore solo l’idea che i “comunisti mangiano i bambini”.
W come World Wide Web, la ragnatela globale che funziona in internet, e che consente tante meraviglie già raccontate nel nostro diario di gioco. Ma ci sta anche W come Wuhan, la città cinese che credo non moltissimi conoscessero prima dell’esplosione dell’epidemia. Per un amante di romanzi come me, intrigante la coincidenza (spacciabile ironicamente come profezia) presente nel romanzo dello scrittore americano Dean Koontz “The Eye of Darkness” (1981), dove si ipotizzava che in un laboratorio di Wuhan fosse stato creato un virus letale per gli uomini.
X come la parola greca xénos, che conosciamo tristemente bene nel termine composto xenofobia. Xénos è lo straniero. La disavventura che stiamo vivendo sembra aver fatto scomparire il tema (la realtà?) dello straniero e dell’immigrazione. Ci sarà da studiare cosa sta realmente accadendo circa la presenza o il passaggio degli immigrati nelle nostre città e territori durante queste settimane di allarme e di lockdown. Dove sono? Non si ammalano? Se ne sono andati? Si guardano bene da
entrare dalle nostre parti? Rimane che il vero straniero, ovvero il corpo estraneo che ci è nemico è un virus, non un uomo, un popolo, una razza, una cultura diversi dalla nostra.
Y come yin e yang. Roba di provenienza cinese, come il coronavirus. Nella filosofia cinese, soprattutto nel taoismo, sono le energie complementari e contrapposte che polarizzano tutto l’esistente. Il primo è il principio femminile e negativo. Il secondo è quello maschile e positivo. Senza addentrarci nei dettagli, la fede biblica e cristiana è incompatibile con ogni forma di dualismo manicheo, saldamente contrastato e condannato fin dai primi secoli dalla Chiesa. Non è allo yin o allo yang che dobbiamo affidarci, ma all’unico, necessario e universale mediatore della salvezza, “l’uomo Cristo Gesù” (1 Tm 2,5).
Amen.
don Gabriele Cislaghi
8 aprile 2020, mercoledì santo

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